Chi non ha mai provato, almeno una volta, a cimentarsi con il Gioco dell’Oca? Un passatempo molto semplice, con regole elementari e facile da seguire anche dai bambini più piccoli.

Tutto, infatti, si basa sulla fortuna: si lanciano due dadi e si avanza sul tabellone di tante caselle quant’è il proprio punteggio; ogni tanto, però, ci sono degli intoppi, il Ponte, l’Osteria, il Pozzo, il Labirinto e la Morte, che fanno restare fermi qualche giro o, peggio, ci riportano addirittura al punto di partenza.

Mai perdere la pazienza e perseverare, così da toccare l’ultima casella, al centro, che va raggiunta con un numero esatto, altrimenti si retrocede dei punti in più.

Il tabellone, pur mantenendo sempre lo stesso andamento a spirale, può avere le illustrazioni di ogni tipo, dalle classiche ochette bianche con tanto d’uova e cappellini piumati, fino alle più moderne interpretazioni, originali ed estrose.

E fin qui niente di strano… e invece sto per rivelarvi un particolare che vi lascerà di stucco: il Gioco dell’Oca è nato a Firenze!

Di trastulli simili ne esistevano già tanti, ma la versione ufficiale, quella che tutti conoscono, risale alla seconda metà del Cinquecento quando Ferdinando de’ Medici ne fece dono a Filippo II, re di Spagna. 
Il “nuovo e molto dilettevole giuoco” affascinò a tal punto il monarca che lo regalò a sua volta ad altri nobili personaggi, favorendone la diffusione in tutta Europa. 

Il prototipo, quello di Ferdinando per intenderci, sembra fosse derivato  da un antichissimo gioco cinese, lo Shing Kunt t’o ovvero “la promozione a Mandarini”  che contava, però, 99 caselle, disposte in un percorso tortuoso e pieno di tranelli.

Nel XVII secolo era ormai largamente diffuso in tutta Europa e, ci è dato sapere  che era tra i passatempi preferiti di re Luigi XIII.  Ma verso la fine del Seicento, lasciate le sue origini tranquille e rilassanti, si trasformò nientemeno che in un gioco d’azzardo. Lo si poteva trovare poggiato sui tavoli delle bettole e delle trattorie popolari dove i soldi da pagare venivano talvolta indicati  da ciò che riportava la casella su cui era andato a finire il malcapitato scommettitore, tanto da farlo bandire come “gioco riprovevole e proibito”.

Da allora di tabelloni se ne sono visti di tutti i tipi, ispirati alla politica, alla letteratura, al mondo delle fiabe o inventati su una storia creata appositamente per un evento speciale.

Ma al di là di forme e colori, resta quell’intrigante percorso verso una méta che rappresenta, molto chiaramente, il cammino dell’uomo costellato di gioie e dolori, tant’è che viene spesso usato, con fine allegorico, nell’arte, nell’alchimia e nella cultura.

La scelta dell’oca, come elemento portante del passatempo, non è casuale: al giorno d’oggi dare dell’oca ad una ragazza significa considerarla perlomeno sciocca, ma in antichità il candido pennuto era ritenuto un animale di tutto rispetto, degno di essere offerto agli dei, come ci ricorda anche Erodoto che, nei suoi scritti, parla della loro sacrale presenza al cospetto degli Egizi.

Gabriella Bazzani
A che gioco si gioca? A quello dell’oca!
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