Arrivato in Paradiso, Dante incontra uno spirito beato, è quello di Cacciaguida Degli Elisei; un cavaliere crociato suo lontano parente.

A parte qualche documento risalente agli inizi del 1200, le poche notizie su di lui che abbiamo, sono proprio quelle che ci dà Dante sulle pagine del Paradiso. Insignito cavaliere da Corrado III di Svevia, Cacciaguida fece al suo fianco la Seconda Crociata in Terra Santa (1147-1149), dove trovò la morte.

Quando lo spirito incontra Dante, gli parla subito di un suo bisnonno, tale Alighiero, che ancora vessa in Purgatorio per scontare un peccato di superbia. Lo invita dunque a pregare per lui così da abbreviargli il soggiorno in quel luogo e velocizzargli l’espiazione.

Lo spirito si presenta al Sommo poeta come suo trisavolo dicendogli: “Tu sei la fronda nuova dell’albero di cui io fui la radice…”, prosegue raccontando a Dante che ai suoi tempi Firenze era solo quella compresa nella cerchia delle antiche mura, di cui ora resta solo l’abbazia. Parla di una Firenze pacifica, sobria, onesta e dalle semplici abitudini. Non c’erano i palazzi che conosce Dante, sproporzionati ai reali bisogni dei cittadini.

Firenze era una città dove la nascita di una figlia non era considerata una preoccupazione per la famiglia. Il padre sapeva che avrebbe fatto sposare la ragazza ad un’età giusta, fornendola di una dote ragionevole, che non avrebbe compromesso le finanze familiari. Nel medioevo invece la nascita di una figlia era spesso vista come una sventura. Questo lieto evento comprometteva l’economia di una famiglia mettendola spesso in crisi. Non tutti infatti potevano offrire una ricca dote, dunque la scelta era tra la rovina finanziaria, o la condanna ad una figlia al nubilato.

La città non era ancora stata infettata da quella depravazione sessuale mirante al solo piacere personale, responsabile di un forte decremento delle nascite. Una città che aveva raggiunto la prosperità e il lusso e che rapidamente già precipitava verso la decadenza. I cittadini, anche quelli più nobili racconta Cacciaguida, si accontentavano di indumenti semplici, non appariscenti, mentre loro donne erano riservate e pudiche, filavano la lana, governavano la casa e non portavano monili, diademi o gonne ricamate, tantomeno erano vanitose o appariscenti.

Non vivevano poi nella preoccupazione di poter essere abbandonate a se stesse da un marito condannato all’esilio per motivi politici.

Insomma una città tranquilla, dove tutta la popolazione si distingueva per essere pura ed onesta, dalla persona più nobile a quella più umile e dove i politici si impegnavano con il loro potere esclusivamente per la prosperità dei concittadini, senza perpetrare imbrogli, soprusi, o pretendere tangenti per arricchirsi. Una città dove un politicante corrotto o una donna scostumata sarebbero stati una vera e propria eccezione.

Cacciaguida racconta poi a Dante della sua vita, di essere nato nel sestiere di Porta San Pietro nel 1091 tra i dolori del parto della madre, che sofferente invocava l’aiuto e la benedizione della Madonna. Racconta di essere stato battezzato a San Giovanni e di aver avuto due fratelli: Moronto ed Eliseo. In seguito ricorda di aver sposato Alighiera, una donna ferrarese della famiglia Aldighieri. Uno dei figli, Alighiero, fu tanto virtuoso da renderlo fiero per il suo operato presso la corte dell’imperatore Corrado III, lo stesso che fece cavaliere Cacciaguida e con il quale partì per la crociata in Terra Santa per poi rimanere ucciso. Ma la sua morte gli fece raggiungere la beatitudine e un posto in Paradiso, come ricompensa per aver preservato e difeso i valori cristiani in battaglia dagli infedeli.

Dante manifesta al lettore tutta la sua gioia nel conoscere il suo progenitore con cui può parlare in fiorentino antico. In questo confronto avviene qualcosa di insolito, Dante da del “Voi” al suo avo in segno di rispetto, usanza ci racconta, nata tra gli antichi Romani, per esprimere reverenza nei confronti di un personaggio di caratura. Il primo a beneficiare di questo onore fu Giulio Cesare, omaggiato in questo modo per le sue vittorie e la sua grandezza.

Cacciaguida tornerà poi a suo sfogo, che vuole condividere con il suo discendente, lamentandosi che la decadenza della città è la diretta conseguenza dell’immigrazione e della mescolanza tra fiorentini e gente esterna come quella di Campi di Certaldo, di Figline, o delle borgate di Galluzzo e di Trespiano. Tra loro, indica gente come Baldo da Aguglione della val di Pesa o Fazio da Signa, persone opportuniste e senza scrupoli che hanno portato con loro in città la decadenza. Con amarezza lo spirito rivela che Firenze sarebbe rimasta la città pura che era se non si fosse mescolata con queste genti che l’hanno imbarbarita ed imbastardita per poi trascinarla inevitabilmente verso la rovina.

Si rammarica poi dell’atteggiamento della chiesa che si comporta come una matrigna invece che come una buona madre. Ostacolando l’impero ha creato ulteriore caos politico e divisione tra i concittadini.

Ricordati, dice Cacciaguida a Dante “ Che un toro cieco cade prima di un agnello cieco, e che spesso una sola spada colpisce più e meglio di cinque. Fra due stati egualmente privi di saggezza, crollerà prima quello con la popolazione più numerosa ed arrogante. Una cittadina piccola è più compatta e unanime, è più forte di una moltitudine confusa e senza senno…” Così è accaduto anche a molte grandi famiglie che Cacciaguida elenca. Tra loro: Berti, Bellincione, Ardinghi, Bostichi, Donati, Cerchi.

Interessante è l’aneddoto raccontato sui Buondelmonti e gli Amidei. Buondelmonte de’ Buondelmonti mancò di presentarsi il giorno convenuto per le nozze con una giovane degli Amidei. A peggiorare le cose il giovane optò per sposare la figlia di Forese Donati di cui si era innamorato. Così Buondelmonte il giorno di Pasqua del 1215 mentre si recava verso il duomo per sposarsi con la sua nuova fiamma, fu assalito e ucciso da alcuni componenti della famiglia oltraggiata. Questa bega famigliare divenne la scintilla per quella che diverrà una vera e propria guerra civile. Fu infatti questo per Dante il prodromo che portò la cittadinanza a dividersi in due fazioni: i Guelfi e i Ghibellini.

E pensare che Buondelmonte poco tempo prima era quasi annegato nel fiume Ema vicino al castello di val di Greve, evidentemente il destino volle altrimenti.

Cacciaguida poi con amarezza rivelerà a Dante che presto dovrà lasciare Firenze. Sarà colpito da accuse infamanti ed ingiuriose che seppur false lo porteranno ad essere esiliato. Responsabile del suo destino sarà anche Bonifacio VIII, pessimo papa, dedito più a fare mercato della religione e della chiesa che esserne il rappresentante e il protettore. Tramerà affinché i Guelfi Bianchi siano sconfitti dai Neri e cacciati dalla città.

Dante come sappiamo, dovrà lasciare la sua amata Firenze, accusato addirittura di essere stato d’accordo con i tuoi nemici! Ma sarà ben accolto dal signore di Verona: Bartolomeo della casata degli Scaligeri, che si dimostrerà oltre che un protettore, suo grande amico. Bartolomeo cercherà sempre con molto tatto, di alleviare il peso della sua situazione del suo protetto, senza fargli mai pesare la sua condizione o fargli mancare niente. Dante avrà però così la grande fortuna di conoscere Cangrande, lo rincuora il suo avo, il fratello di Bartolomeo, uomo dalle straordinarie capacità che diventerà signore di Verona nel 1312. Un anno infausto, perché vedrà anche Clemente V favorire la discesa in Italia di Arrigo VII per una missione imperiale, che si rivelerà però del tutto fallimentare.

Cacciaguida facendosi sempre più luminoso nella sua beatitudine, inviterà Dante a raccontare quanto ha saputo da lui, senza preoccuparsi della reazione di chi lo ascolterà: “Chi ha la rogna si gratti” gli dice e aggiunge: “Si vergogni chi ha motivo di farlo”. La voce di Dante dovrà colpire le cime più alte e denunciare i vizi dei più potenti, permettendogli così di riflettere, redimersi e di poter tornare sulla retta via.

L’esilio di Dante durerà ben vent’anni, dal 1301 al 1321 quando morirà a 56 anni a Ravenna per essere sepolto nella basilica di San Francesco.

Nel 1396, nel 1428 e poi nel 1476 i fiorentini, forse pentiti della condanna inflitta a Dante, reclameranno i resti del poeta ma sempre senza successo. Neanche con Leone X e con Clemente VII entrambi papi fiorentini, Firenze riuscirà a riavere le spoglie di Dante. Anzi, nel 1519 Leone X fu addirittura beffato; dopo aver fatto costruire da Michelangelo un monumento funebre per il poeta, il papa scoprì che all’interno del sarcofago consegnatogli erano sparite le ossa del Sommo poeta, trafugate dai frati francescani ravennati che le tennero ben nascoste nel loro convento fino al 1677. Quando nel 1810 i frati a causa di un editto napoleonico dovettero lasciare il convento, nascosero le spoglie in una porta murata del Quadrarco di Braccioforte. Queste furono ritrovate poi per caso nel 1865 e deposte definitivamente a Ravenna in quella che oggi è conosciuta come tomba di Dante.

Neanche da morto Dante coronerà il sogno di tornare alla sua Firenze.

Riccardo Massaro
Dante e il suo fantastico viaggio 1: Un incontro speciale
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