La storia di Piero Calamai
Estratto dalle Memorie di guerra 1943/46
Piero era fiorentino, come molti ragazzi della sua età vissuti sotto il regime fascista, era stato influenzato e ammaliato dalle parole del duce. Passò così la sua infanzia prima nei Giovani Balilla, poi nella Gioventù del Littorio. Ma andiamo per ordine.
Piero ci racconta di quando giunse a Roma per la prima volta da adolescente per il Decimo Campo Dux nella Nuova Roma Imperiale. Il duce nell’illusione di ripetere i fasti dell’antica Roma sceglieva questo nome altisonante per la capitale. Ragazzino, vestito come un soldato ed atteggiandosi come tale, sviluppava come gli altri suoi compagni uno spiccato cameratismo, mentre inquieto attendeva per ore l’arrivo del duce che voleva farsi aspettare da quest’orda di scalmanati adolescenti effettivamente poco portati alla marzialità, che così pensava di punire ed educare.
Piero però ci racconta anche dei vecchi quartieri di periferia di Firenze, quando nell’Arno non ancora inquinato, si poteva ancora fare il bagno al lido Bellariva, davanti ai canottieri che percorrevano le sue placide acque; o di quando la gente si fermava a guardare dalle spallette del ponte di Santa Trinità le acque, i bagnanti e le imbarcazioni di passaggio.
Sul fiume c’era una chiatta a motore illuminata con un bar e un orchestrina che suonava, mentre l’imbarcazione scarrozzava gli innamorati che passavano dal Ponte alle Grazie, alla Pescaia di Santa Rosa e poi sotto il Ponte Vecchio.
Ricorda quando un inverno intorno agli anni ’30, l’Arno ghiacciò, e i bambini ci camminavano sopra nonostante i vecchi li rimproverassero che fosse pericoloso. Si ricorda dell’entusiasmo della gente tra il ‘35 e il ’36, quando I legionari avevano riconquistato parte dell’Impero, o quando nel ‘38 la gente applaudiva il duce lungo la ferrovia dal Brennero mentre tornava a Roma dopo aver salvato la pace.
Il padre era stato un ufficiale della Grande Guerra che richiamato e destinato in Libia, dovette trasferirsi a Tripoli con tutta la famiglia. Una vera avventura per un ragazzo così giovane, che a soli sedici anni si ritrova tra gli arabi e le loro particolari ed affascinanti abitudini. Era in Piazza Italia, sotto i portici in stile littorio, quando gli altoparlanti diffondevano le parole del duce sull’ora delle decisioni irrevocabili… così l’Italia entrava in guerra. Ecco allora cadere le prime bombe su Tripoli, che però andarono a colpire il quartiere ebraico per la gioia degli arabi, che cominciarono a cantare contenti.
”Vecchia pelle”, è il titolo del suo racconto, che prende nome dal titolo di una canzone presso a poco famosa come “Giovinezza” e “Battaglioni M”. Piero era un ragazzo ancora imberbe e con un fisico tutt’altro che atletico, che a causa di una punta d’ernia e una leggera miopia, venne scartato dalla Marina. Ci riprovò dopo essersi fatto operare, ma inutilmente, la Marina non lo voleva. Tornò allora a Firenze, quando gli italiani avevano già partecipato alla disastrosa battaglia di Sidi El Barrani, per fare domanda nella Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale.
Nel 1942 riesce finalmente a farsi assegnare alla Difesa Contraerea Territoriale, nella Quinta Legione Artiglieria Contraerea a Genova, chiamata “la Superba”. Qui però si annoiava, c’era poco da fare tra gli approfittatori e i raccomandati che avevano fatto la tessera del Partito Nazionale Fascista per semplice interesse personale e non verto ideologico. Entrò allora nei Battaglioni d’Assalto, non riuscendo ad essere ammesso però negli “M”, la Legione Speciale, quella contrassegnata con le mostrine con la “M” rossa in corsivo della firma del duce, perché troppo basso.
Poco contento e dopo forti insistenze, o forse per scelta del destino, Piero approda alla I° Compagnia del 6° Battaglione Camice Nere d’Assalto Autocarrato Montebello destinato al fronte russo. Per andare in Russia il suo treno transiterà proprio per Firenze a Campo di Marte, dove la madre lo aveva atteso tutta la notte, insieme ad altri fiorentini, scolaresche e le gerarchie del partito locale, che volevano salutare la gioventù fascista diretta al fronte.
Dopo un mese di viaggio e tre settimane di cammino finalmente arrivano sul saliente di Stalingrado, passando tra i carri armati sventrati e macerie dei villaggi. Un ambiente completamente diverso da quello che conosceva e forse sperava. La guerra lontana dall’eroica propaganda, cominciava a mostrare il suo vero volto. Si andava all’attacco del nemico con un fuoco di copertura che terminava 100 metri prima della linea nemica. Qui si rimaneva completamente scoperti e si diventava perfetti bersagli per i russi asserragliati. Questi ragazzi si erano illusi che quella guerra sarebbe servita insieme al fascismo, a combattere i padroni del mondo per aiutare il proletariato.
A Piero intanto tornava alla mente la prima è unica volta in cui vide il duce, quando ebbe l’impressione che fosse triste, senza quella grinta che lo aveva sempre contraddistinto. Forse aveva già capito tutto, mentre Piero ripensava a questo, i russi sfondavano il fronte, tra il freddo, la fame, i colpi di mortaio e i cannoneggiamenti che affliggevano gli italiani. Ma Piero era ancora un ragazzino e con la sua spregiudicatezza durante i bombardamenti, camminava all’ aperto senza rendersi conto del pericolo. Credeva di essere coraggioso, ma poi davanti al nemico si bloccò, tanto da dover ricevere da un camerata un poderoso calcio in faccia per farlo reagire.
Posizionati sul Don completamente ghiacciato, bisognava percorrere tre chilometri di notte per andare a prendere il rancio, con il fango che arrivava fino alle caviglie. La cena era composta da una fetta di pane spalmata con un cucchiaio di marmellata e un pochino di cognac da dividere per tutta la squadra. Il rancio quando c’era, era composto da patate, zucca e cipolle rubate negli orti russi e bolliti in un recipiente trovato sul posto. Ma accendere il fuoco era pericoloso, perché ogni volta che i russi vedevano del fumo attaccavano con l’artiglieria riducendo tutto in macerie.
Alle 15:00 in Russia faceva buio fino alle 7:00 del mattino, durante la guardia si contavano i secondi, 60 secondi per fare un minuto e poi 60 volte per fare un’ora, battendo i piedi per il freddo perché la divisa e le coperte piene di pidocchi non bastavano a scaldare.
È in questi momenti che con nostalgia Piero pensa a Firenze e gli viene in mente il testo della canzone di Odoardo Spadaro “La porti un bacione a Firenze”. Intanto il nemico entrava ed usciva dalle maglie ormai sbrindellate della difesa italiana. Visto che bisognava sparare ad intervalli regolari per evitare che le armi si congelassero, Piero pensò di utilizzare il gelo per uccidere i fastidiosi pidocchi nei suoi indumenti lasciandoli all’esterno, ma quelli resistevano ugualmente e ricominciavamo ad irritare la pelle.
Poi, una notte una granata lo ferisce e lo costringe a lasciare il fronte per ricoverarsi all’ospedale militare di Stalino. Tutto sommato una fortuna, visto che i suoi amici sono ormai tutti morti.
Dopo quarantacinque giorni di licenza per convalescenza, Piero si reca all’ospedale militare San Gallo di Firenze. Finalmente la sua domanda per entrare nella Regia Marina è stata accettata, ma non avendo particolari capacità gli vengono affidate mansioni semplici.

Arriva poi il triste giorno dell’armistizio, quando gli italiani cominciano una sanguinosa e fratricida guerra civile. Piero allora da Venezia torna a Firenze e scendendo alla stazione di Santa Maria Novella, scorge in fondo ai binari centinaia di ragazzi vestiti da contadini ben sorvegliati dalle SS che li stanno caricando sui treni per portarli in Germania. Questi gesticolando gli fanno ampi cenni di scappare, ma lui indossa ancora l’uniforme e le SS neanche lo guardano. Ma dopo l’8 settembre Piero abbandonando il suo posto è diventato un disertore, ma se anche il re è scappato! E il duce addirittura è stato arrestato! Cosa fare allora? Il fascismo è ormai morto, ma Piero non poteva seguire Badoglio e il re dopo il loro vile tradimento perpetrato agli ex alleati. Ed è qui che decide di entrare nella Decima Mas. Vuole continuare a combattere per l’onore della sua patria e mantenere la promessa ai camerati tedeschi. Viene allora inserito nella Prima Compagnia NP (nuotatori paracadutisti) per entrare subito in azione.
Al contrario di quello che si pensa, nella Decima non si parlava di politica, ma solo di onore e di dovere. Piero come Guardiamarina, compete anche il titolo di Marò, ed entra nelle fila del Battaglione Barbarigo sul fronte Anzio-Nettuno contro gli Alleati al fianco dei tedeschi. Qui prende posto nel Canale Mussolini, in pieno Agro Pontino.
La terra di quella zona era cosparsa di grandi buche provocate dalle esplosioni, i ragazzi per darsi coraggio facevano sberleffi al nemico che erano a poche decine di metri da loro. Tra un attacco e l’altro, i colpi dei cecchini, un’esplosione lo travolge. Rimane talmente scioccato da girovagare per due o tre giorni senza meta. Resosi conto della sua involontaria diserzione, rientra subito nella sua compagnia nel frattempo decimata dal nemico rischiando la fucilazione, se non fosse stato per un comprensivo ufficiale.
Saranno circa 20.000 i soldati tedeschi morti tra Nettuno e Anzio ospitati nel cimitero di Pomezia. 110.000 quelli caduti nella Campagna d’Italia. Ormai senza mezzi e con quello che gli rimaneva dell’artiglieria, lui e i suoi compagni cercano di contrastare l’avanzata dei carri americani resistendo allo stremo. Al loro passaggio la terra tremava e si sbriciolava e il rombo dei motori e lo stridio dei cingoli riempirà i ricordi di Piero per anni. Eccolo allora trovarsi davanti, anzi al centro, di un duello tra un Tiger tedesco e uno Sherman mentre si lanciavano cannonate come fossero palle da tennis, passando incuranti sui cadaveri dei soldati.
Tra i suoi ricordi anche quelli di un ragazzo che senza un braccio e le gambe lo afferrò per una caviglia affinché non la lasciasse lì in terra da solo.
Dopo aver resistito, tedeschi e italiani si ritirano dal fronte di Nettuno e cominciano ad andare verso il nord. Ormai tutti sanno che la guerra è persa, ma almeno continuando la lotta, avrebbero dimostrato che dopo l’8 settembre alcuni italiani erano ancora meritevoli di stima e rispetto. Almeno questa ultima battaglia l’avevano vinta.
Quando Piero arriva finalmente a Firenze la trova bombardata e semideserta, i suoi compagni di scuola se non erano morti si erano fatti partigiani. Allora con gli altri sopravvissuti si riavvia verso nord, per continuare a combattere contro gli Alleati. Nel frattempo c’era stata la strage di Ozegna, dove i partigiani a tradimento avevano ucciso dodici Marò, da qui comincia anche per Piero la guerra civile con le nefandezze che tutti conosciamo. Piero e il padre riunitisi vengono a sapere delle stragi a Piazza Santa Maria Novella e a Porta al Prato. Stragi che se fossero rimasti nella loro città li avrebbero sicuramente coinvolti.
Il 15 agosto Firenze viene liberata, i tedeschi però l’avevano già abbandonata facendo saltare il ponte dove erano passati per potersi ritirare senza essere incalzati. Piero intanto arriva a Trieste dove conosce la signorina Maria Pasquinelli anche lei fiorentina (ne avevo già parlato), quella che nell’immediato dopoguerra ucciderà un generale inglese per protestare sull’assegnazione dei territori italiani alla Jugoslavia. Siamo ormai giunti nel maggio del 1945 e Piero insieme ad altri due compagni viene fatto prigioniero dai partigiani. Per un colpo di fortuna viene salvato proprio dagli americani. Finisce dunque dopo aver rifiutato di andare a combattere i giapponesi, vicino Terni, nel campo R di Collescipoli a scontare la sua pena. Qui realizza di aver bruciato la sua intera giovinezza per degli ideali traditi e dei sogni svaniti nel nulla.
La mattina di Pasqua del 1946, dopo cinque anni di ininterrotto servizio militare, Piero scende finalmente alla Stazione di Santa Maria Novella indossando una vecchia uniforme inglese, di quelle sottratte ai morti. In tasca ha 200 lire, unico indennizzo per quanto fatto, possiede poi un documento bilingue che ne attesta l’espulsione dalle zone militari. Aveva solo 23 anni.


