L’acqua tofana

Grazie a della corrispondenza diplomatica conservata negli archivi romani, veniamo a sapere di un avviso di giustizia inviato a Firenze nel luglio del 1659. Questa riporta la celebrazione pubblica della giustizia per mezzo di alcune esecuzioni.

Sabato 5 luglio 1659 alle ore 22:00 in Piazza Campo de’ fiori a Roma (dove il 17 febbraio del 1600 era stato arso vivo dall’Inquisizione Giordano Bruno), vengono impiccate cinque donne precedentemente condannate per aver prodotto acqua avvelenata (l’acquetta di Giulia o acqua tofana).

Con questo preparato le accusate hanno fatto morire i loro mariti e quelli di altre donne, soprattutto durante il periodo della peste, quando tra i tanti decessi che avvenivano ogni giorno, queste morti non venivano notate.

Le colpevoli sono Giovanna De Grandis, Girolama Spana (che aveva come matrigna Giulia Tofana la prima a produrre il veleno da cui prende il nome), Laura Crispoldi, Maria Spinola e Graziosa Farina. Dopo essere state indagate e seguite da spie infiltrate, si scoprono legate ad una rete composta da numerose donne che già operavano da qualche anno a Roma.

Queste notizie inviate nel capoluogo toscano vengono redatte da un toscano residente a Roma. È Carlo Rinuccini, un diplomatico giunto a Roma all’inizio del 1659. L’uomo si distingue per la vivacità delle sue descrizioni nella corrispondenza che settimanalmente spedisce a Firenze narrando quanto accade nell’Urbe.

L’uomo racconta che nella nota piazza romana, vengono tolti tutti i tavolati che venivano usati dalle botteghe, affinché il luogo potesse ospitare il gran numero di persone che sarebbero affluite per assistere all’impiccagione. Vengono montati dei palchi e venduti i posti migliori agli spettatori più abbienti. Tra loro anche cardinali e nobili. Questa grande messa in scena della giustizia serve da monito a chi pensi di poter compiere reati e pensare di uscirne impunito. È una giustizia eclatante, che vuole mostrare la sua funzionalità e la sua implacabilità su chi compie reati, soprattutto gravi come questo. Allo stesso tempo però questa giustizia che colpisce il corpo del reo con la morte fisica, vuole preservarne l’anima, salvarla attraverso l’opportunità di un pentimento, una confessione, una conversione.

Per notizie più approfondite su questo argomento, ci viene in aiuto anche l’Arciconfraternita della Misericordia dedicata a San Giovanni decollato. I suoi membri assisteranno le condannate in questo tragico frangente. Anche se il registro degli anni 1643-1665 è piuttosto lacunoso, sappiamo che questa Confraternita fiorentina di volontari ha sempre assistito tutti i condannati a morte portando il proprio conforto spirituale e morale, seguendo la tradizione che era, prima, della Compagnia di Santa Maria della Croce al Tempio.

La Confraternita fu ufficializzata con una bolla pontificia nel 1490 da papa Innocenzo VIII che donò loro la chiesa Santa Maria della Fossa dove poter risiedere, posta alle pendici del Campidoglio, con l’obbligo però di ricostruirla. Nel 1540 invece papa Paolo III le accordò il privilegio di liberare un condannato a morte  all’anno.

L’Arciconfraternita annovera tra i propri membri uomini illustri come Michelangelo Buonarroti, Giorgio Vasari, il  Cardinale Roberto Bellarmino (proclamato poi Santo nel 1930), nonché papa Clemente VIII, papa Urbano VIII e papa Clemente XII.

Il resoconto ritrovato negli archivi romani ci restituisce un dettagliato racconto della vicenda:

La mattina del 5 luglio, i confortatori della Confraternita si presentano alle carceri di Tor di Nona insieme al provveditore dell’Arciconfraternita, due sacrestani della Compagnia e il confessore, che si prenderà la responsabilità dei condannati.

I Confratelli che sono tutti di origine fiorentina, vivono in un quartiere a ridosso della chiesa di San Giovanni dei fiorentini, in quella che oggi è via Giulia. La via prende nome da Giulio II, che affidò nel 1508 al Bramante il riassetto della zona. In questo quartiere abitano tutti i fiorentini che lavorano a Roma. I Confratelli appartengono a diverse estrazioni sociali, si accompagnano ad essi anche prelati e nobili come il principe Maffeo Barberini che in seguito diventerà papa Urbano VIII, quello che sarà raffigurato ancora nei panni di Cardinale in un famoso quadro di Caravaggio.

Quando alle donne viene data la notizia della sentenza, queste si abbandonano ad una violenta reazione di terrore e disperazione. Le donne hanno prodotto, distribuito e somministrato un veleno a base di piombo, arsenico e antimonio. Un preparato composto in casa che si rivela un veleno mortale inodore, insapore ed incolore.

Prende vita a Roma grazie a questo ritrovato, un mercato clandestino attraverso una fitta rete composta esclusivamente da donne, che lo vendono per somministrarlo a mariti particolarmente violenti, ubriaconi, fedifraghi, vessatori o ladri di dote. Poche gocce di questo preparato conducono alla morte senza lasciare la minima traccia traccia sul corpo.

I sintomi erano forti dolori allo stomaco, vomito, diarrea, febbre e ad una forte arsura che portava ad una sete implacabile. L’antidoto? Semplicemente un acido come limone o l’aceto che se ingerito ne annullava gli effetti. Ma difficilmente ci si accorgeva dell’ avvelenamento. Neanche i medici ed i cerusici se ne accorgevano, confondevano infatti queste reazioni come sintomi di varie malattie gravi.

Nonostante il reato fosse grave, era fondamentale per la giustizia e la chiesa salvare l’anima del condannato. Questo era l’obbiettivo del conforto spirituale della Confraternita fiorentina. Sappiano da loro che sette ore prima dell’esecuzione le donne assistettero a delle messe ricevendo la comunione e che nelle ore successive saranno trattenute da alcune conferenze a tema spirituale. Intorno alle 20.00, il Maestro di giustizia gli metterà il capestro al collo per poi portarle in processione.

Le donne secondo le testimonianze scritte della Confraternita e di altri testimoni presenti, mentre facevano atto di contrizione a Gesù Cristo non mostrano paura, appaiono anzi rassegnate. Forse confuse e frastornate dagli eventi, non hanno realizzato che la loro fine è imminente.

Una di loro poi, Girolama, non aveva ancora confessato il proprio crimine. Questo era un passaggio piuttosto importante per la giustizia dell’epoca, che attraverso prove, testimonianze e pressioni psicologiche, o la tortura, otteneva sempre una piena confessione. Solo allora poteva dare via ad una condanna definitiva. Lei però aveva resistito e non avendo confessato lamentava (pur essendo colpevole), di essere stata ingiustamente condannata. Disperata arrivò a minacciare di ammazzare le sue compagne e poi di suicidarsi. Girolama era quella nel gruppo più determinata e scaltra. Più volte aveva messo in difficoltà i giudici durante il processo. Era colpevole di aver prodotto il veleno, averlo usato e venduto.

A queste minacce intervennero prontamente i volontari dell’Arciconfraternita che riuscirono a calmare, rasserenare e confortare la donna. La sua anima gli spiegano, può essere ancora salvata, ma solo pagando con la vita il suo ignominioso e proditorio reato. Uno dei più odiosi e tra i più severamente puniti in questa epoca.

Le donne caricate sul carro, sono accompagnate da grida, pianti e commenti della folla che incontrano mentre attraversano la città. Un rituale diffuso quello della processione, che si ripeteva in tutte le città d’Italia, un’antica usanza che sopravviveva dal medioevo. Così come avveniva a Firenze, anche questo corteo era piuttosto lungo, si svolgeva per un tragitto che percorreva buona parte del centro cittadino, alquanto tortuoso e lento. I Confratelli della Confraternita incappucciati ne guidano i carri continuando a confortare da sotto le loro cappe nere le cinque donne che ora devono essere mostrate al pubblico in queste due ore di macabra sfilata. È un ulteriore punizione per la loro infamante e proditoria azione.

Gli squilli di tromba e le grida del Maestro di giustizia precedono il corteo, annunciando che queste donne vengono condannate a morte per aver fabbricato acqua venefica e fatto morire una grande quantità di persone (da alcune centinaia al migliaio, è difficile farne una stima esatta). Non sappiamo come le donne siano arrivate al patibolo, se con i loro vestiti sdruciti dalla lunga carcerazione, o se vestite di nero, come accaduto a Beatrice Cenci e Lucrezia Petroni. Si sa per certo che indosseranno dei pantaloni, questo per evitare che durante lo spasmo dell’impiccagione muovendo le gambe possano mostrare le loro parti intime e destare scandalo.

È molto probabile che alle donne non sia stato dato modo di parlare al pubblico, ma è probabile che invece uno spazio sia stato concesso ad un esponente della giustizia per ammonire la folla e per indicare le colpe delle condannate.

Le donne giunte nella piazza si avviano al patibolo meste e rassegnate, salgono gli scalini lentamente avvicinandosi al boia. È importante che la condanna venga eseguita celermente e che questa non sia né cruenta né efferata. Se la vittima dovesse soffrire più del necessario, il boia subirebbe una pena severa, in alcuni casi rischiando anche il linciaggio della folla.

La testimonianza continua rivelando che una delle donne, Cecilia, comincia improvvisamente a piangere e a singhiozzare chiedendo agli astanti se dovesse morire. Evidentemente comincia a realizzare che la sua fine è e giunta. Diviene pallida, si mette a sedere e sbianca sempre di più. Trascorrono così attimi che sembrano infiniti. Allora i confortatori spirituali le si avvicinano spiegando che è giunto il momento di pagare per le colpe commesse in questo mondo, ma che nell’altro, il Misericordioso Dio, la porrà sicuramente in Purgatorio. La donna allora piange e piena di dolore si confessa mentre comincia a sudare copiosamente.

I Confratelli sono colpiti e commossi da questo improvviso fervore religioso dimostrato dalla donna. Cecilia appare ora ai loro occhi come la penitente Maddalena. Si abbandona a un grande trasporto fisico e piange versando molte lacrime mentre invoca il perdono appellandosi ai presenti. Tra il pubblico ci sono anche quelle donne che hanno spacciato o usato il veleno, e quelle che all’ultimo momento per un ripensamento o per timore non lo hanno più adoperato. Alcune di loro pensano che hanno rischiato la stessa fine, altre che presto potrebbero farla se le indagini continuassero.

Maffeo Barberini nato a Firenze nel 1568, il futuro papa Urbano VIII è presente all’esecuzione nota che questa va a rilento, incita così con fervore il boia urlando: “Spedisciti!” (sbrigati), il boia arrogante o forse solo teso e nervoso, gli risponde sfrontatamente: “Venite voi a fare quello che faccio io!”

Come già anticipato il supplizio doveva essere veloce ed incruento, ma evidentemente il boia seppur chiaramente concentrato, si era dilungato troppo nei preparativi. Così Palmerino Cherubini, il boia che si era rivolto così sgarbatamente a Maffeo Barberini, alla fine della cerimonia fu spedito alle prigioni di Civitavecchia per scontare cinque anni di detenzione. Non terminò però la sua pena, perché dopo pochi mesi morì. Il futuro papa era stato forse troppo severo nei confronti del boia che però era stato poco solerte.

Le salme delle impiccate non rimasero esposte al pubblico, i Confratelli fiorentini di San Giovanni decollato prelevarono subito i cadaveri e li portarono nella chiesa per ricomporli e dargli degna sepoltura, ma in una fossa comune e senza indicazioni. Una sorta di damnatio memoriae meritato per l’atroce crimine commesso.

Riccardo Massaro
L’acqua tofana
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2 pensieri su “L’acqua tofana

  • 16 Ottobre 2025 alle 22:32
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    Devo scrivere che questo argomento mi ha molto toccato. In tre punti mi sono venuti i brividi.
    Riconosco che lei è uno scrittore “nato”.
    Meno male che la pena di morte come giustizia non esiste più grazie alla Toscana e a Firenze in particolare dove fu abolito per prima la pena di morte. Oggi, a parte le guerre che sono ancora tante nel mondo, “quasi ” tutti gli stati si sono risolti a non uccidere più le persone che incorrono in dei reati.
    Bellissimo articolo come sempre.
    Grazie!

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  • 13 Ottobre 2025 alle 14:32
    Permalink

    Sull’argomento è stato scritto recentemente un libro.Il titolo “L’avvelenatrice di uomini” di Cathryn Kemp , casa editrice Nord.
    Interessante

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