Avevo già parlato di questo autore fiorentino, Sergio Flaccomio, dopo aver letto il suo libro “I falchi del deserto”, che narrava delle sue esperienze in Africa come aviatore nel Secondo conflitto.
Questa è la sua seconda opera, Obbedire e combattere-
Nonostante l’inferiorità tecnica dei velivoli italiani, Sergio con i suoi compagni ha cercato sempre di assolvere ai suoi doveri di militare. Certo, ammette l’autore, volare e combattere su aerei da caccia come Spitfire (inglese), Messerchmitt (tedesco), o Mustang (americano) sarebbe stata sicuramente tutta un’altra storia… mezzi superiori, più potenti, meglio armati e non soggetti ai difetti che un’ economia autarchica come quella fasciata non poteva risolvere. Bisognava allora accontentarsi di aerei costruiti con progetti ormai superati, che prevedevano ancora l’uso del motore con i pistoni a disposizione stellare, dunque più lenti, ingombranti e raffreddati ad aria. Questo mentre sia nemici, che alleati, adottavano già da tempo motori con cilindri disposti in linea, ben più potenti ed efficacemente raffreddati a liquido.
Quando le aviazioni nemiche nella loro flotta vantavano quadrimotori da bombardamento, gli italiani ancora insistevano sui vetusti, lenti ed ingombranti bimotori, o i meglio riusciti trimotori, ma pur sempre lentissimi e superati.
Non va poi sottovalutata la confusione tutta italiana creata con l’adozione di ben sette tipi diversi di bombardieri e di cinque caccia, con quattordici tipi di motori, tutti ovviamente differenti tra loro, che mettevano in seria difficoltà sia la fornitura, che lo stoccaggio dei pezzi di ricambio. L’unico veicolo che avrebbe potuto fare la differenza sarebbe stato il Macchi 205, l’unico dotato di due cannoncini, veloce e agile. Teoricamente pronto a giugno del ’40 entrerà in azione solo nel ’43, con pochi esemplari, ma ormai il conflitto aveva già trovato i suoi vincitori
Così per tutta la guerra, ancora si combatterà con il biplano CR 32 e CR 42 Fiat, aerei riesumati dal primo conflitto ed antiquati. Seppur affidati a piloti coraggiosi dalle indubbie capacità, la tecnologia di questi apparecchi era vergognosamente superata. Aerei che erano stati impiegati come pattuglia acrobatica, come la “Fougier”, che con essi eseguiva una complessa serie di evoluzioni. Pensate che per dimostrare la loro preparazione, i piloti volavano legati tra loro con un nastro azzurro, che univa ben cinque velivoli, nonostante fossero coinvolti in complesse evoluzioni, riuscivano ad atterrare con quel nastro assolutamente integro!
Non dimentichiamoci poi delle transvolate oceaniche, vere e proprie imprese, con i raid di Balbo, di De Pinedo e di Farrarin, piloti famosi in tutto il mondo. Furono le loro imprese ad aprire le rotte per l’aviazione civile, che si sarebbero rivelate più efficaci e veloci della lenta navigazione navale transoceanica.
Flaccomio difende a spada tratta i suoi compagni, che non si sono mai tirati indietro, anche davanti all’impossibile, combattendo per altro una guerra senza ideali, ma sempre assolvendo al proprio dovere con indiscutibile coraggio.
Pensate che ancora nel ’42 si montavano sugli aerei mitragliatrici calibro 12,7, completamente inoffensive sulle fortezze volanti americane, tanto che Superaereo (lo Stato Maggiore dell’Aereonautica), consigliava ai suoi piloti di colpire due o tre punti deboli in particolare per cercare di abbattere questi mostri volanti. Colpire questi punti si rivelava una fallimentare roulette russa che esponeva i piloti ad essere bersagliati sia dai caccia nemici che dalle mitragliere delle fortezze!
Non parliamo poi delle bombe in dotazione, troppo leggere e costruite con pareti talmente sottili che le loro schegge erano assolutamente innocue, tanto da provocare danni risibili alle strutture colpite. Semplici inutili e rumorosi petardi.
I piloti italiani erano nonostante tutto ben preparati, seguivano un addestramento all’altezza e imparavano tattiche di battaglia efficaci, ma avendo pochi aerei a disposizione, lenti, male armati, mal equipaggiati e con un endemica scarsità di carburante a disposizione, il loro apporto al conflitto risultava insufficiente.
I piloti dei caccia adottavano con efficacia l’attacco frontale. Picchiando dall’alto su un bombardiere cercavano di colpirne i motori, i piloti o i serbatoi. Ma le velocità contrapposte riducevano il tempo per poter colpire efficacemente. Al contrario, attaccando la coda della fortezza volante, le velocità dei due velivoli si uniformano, ma c’era il forte pericolo di essere colpiti dai mitraglieri alloggiati in coda, solitamente armati con grossi calibri e canne binate.
Lateralmente invece era molto difficile colpire l’obbiettivo a causa sia della velocità che della limitata esposizione offerta dalla sagoma nemica.
Con l’attacco dal basso invece era possibile colpire il ventre, che risultava meno corazzato e dove per altro erano più esposti i serbatoi di carburante. L’azione doveva comunque essere repentina e il pilota doveva allontanarsi dai tiratori nemici cercando di mostrare il meno possibile la propria sagoma.
I bombardieri Alleati nelle prime fasi della guerra non erano affiancati dai caccia, perché partendo da aeroporti lontani l’autonomia dei monomotori di scorta risultava insufficiente. Ma con le nuove conquiste terrestri gli aeroporti nemici si erano avvicinati agli obbiettivi da colpire, permettendo ai caccia di effettuare efficaci scorte armate.
Immaginate gli esordi, quando questi enormi e lenti aerei non erano supportati da aerei a loro protezione. Le conseguenze sono immaginabili. Potevano solo stringere la formazione e scaricare un fuoco intenso verso i caccia nemici, utilizzando tutte le loro armi a disposizione, oppure cercare di nascondersi tra le nubi quando queste erano presenti.
Troppo lenti, pesanti e goffi non potevano sfuggire con manovre evasive e rimanevano in balia del nemico. Inscenando una sorta di caccia al fagiano. La tattica dei caccia avversari prevedeva di attaccare i bombardieri sia al loro arrivo per scompaginarne le formazioni, costringendoli così a bombarde con poca precisione, per poi attaccarli, dopo aver fatto rifornimento, nuovamente durante il viaggio di ritorno.
Poetica e drammatica è la descrizione dell’autore di un duello tra aerei Hurricane inglesi e i nostri Macchi 200. Dopo un incontro casuale nei cieli, avviene un serrato scambio di colpi. Tra attacchi e disimpegni alcuni aerei vengono abbattuti. Un pilota italiano precipita in mare, ma riesce a gettarsi con il paracadute e ad ammarare per essere poi recuperato da un idrovolante. Quello che colpisce è la delicatezza del linguaggio usato per descrivere tutte queste situazioni. I dettagli tecnici vengono semplificati e resi comprensibili anche ai profani, ma quello che spicca di più è l’aspetto umano dall’autore che emerge sempre provocando e trasmettendo forti emozioni al lettore.
Il racconto continua con D.P. e V.V., due piloti fiorentini che si incontrano in Sardegna dove prestano servizio. Tutta la loro toscanità si manifesta nella loro conversazione. V.V. rivela che si aspetta di morire con i suoi compagni nella missione che lo vedrà partecipe l’indomani contro un convoglio inglese di passaggio nel Mediterraneo. I due si conoscono a malapena, ma sono accomunati dall’amore per la loro città, Firenze, luogo dove sono nati e vissuti. I due si siedono per un ultimo pasto insieme, chiacchierando ricordano le vie e i negozi di Firenze e discutono della bellezza delle ragazze fiorentine. Tra loro nasce immediatamente una vera amicizia che l’autore ci fa vivere rendendoci partecipi di questo incontro attraverso un racconto vivo ed emozionante. Il pilota è consapevole che presto la sua vita sarà troncata, ma si gode questo piacevole incontro. Dopo questa amichevole chiacchierata V.V. andrà verso il suo triste ed inesorabile destino, ma non prima di aver detto al nuovo amico queste parole: “Non voglio parafrasare Spadaro, ma… portami un bacione a Firenze…”. Il mattino seguente D.P. decide di andare a salutare l’amico aviatore e alle 4.00 del mattino è lì con lui, vicino al velivolo in partenza. L’uomo, grazie alla spensierata serata, ritrova tutta la sua spavalderia e tempra fiorentina. Decolla con il suo lento aerosilurante S 79 sorridendo e salutando l’amico per poi non fare più ritorno. Sarà inghiottito dai flutti del Mediterraneo insieme alla metà dei suoi compagni.
Flaccomio dopo questo toccante aneddoto ci spiega come deve essere il carattere di un pilota aeronautico. Quello di un bombardiere è estremamente diverso da quello di un caccia. Calmo, ponderato, riflessivo, freddo, distaccato, deve avere più testa che fegato. Modesto, schivo e silenzioso, vola per migliaia di chilometri e per lunghi ed interminabili periodi, logorandosi nell’incertezza dell’esito del suo volo. Vola sopra le nuvole, con il timore di attacchi improvvisi ed in balia degli eventi atmosferici, sedendo su tonnellate di bombe e carburante altamente infiammabile. Non può e non deve essere una testa calda, come se ne trovano invece tra i piloti da caccia. L’altro pilota invece si presenta sicuramente come uno sbruffone, esibizionista e spavaldo affronta da solo il nemico, non ha la responsabilità del suo equipaggio e si rivela così più intrepido, temerario ed impavido.
Tante, troppe volte si sono visti bombardieri tornare con la carlinga crivellata dai colpi nemici. All’interno macchie di sangue, compagni agonizzanti o morti. Il pilota ne usciva scosso ed emotivamente provato per non essere riuscito a salvare i propri compagni.
I nostri bombardieri erano piuttosto lenti, pesanti, con poca autonomia e armati con bombe inoffensive da 60, 100, 250 kg, raramente da 500kg. Bombe che non reggono il confronto con quelle degli Alleati dal peso di 1.000, 2.000 o 3.000 kg! La nostra aviazione contava di pochi aerei, tutti usati alla spicciolata, con ondate di sette dieci velivoli al massimo. Di contro le formazioni alleate erano composte da centinaia di velivoli!
Tra le tante assurde decisioni dei comandi italiani, svetta quella di mandare la nostra Aeronautica in Inghilterra, disperdendo così quelle poche risorse aeree ancora a disposizione. Con strumentazione inesistente, nel viaggio di andata si persero gran parte dei velivoli che volando alla cieca, non solo mancarono la destinazione, ma rimanendo senza carburante atterrarono nelle località più disparate ed impervie. Non da meno fu l’altra assurda decisione, quella che viene definita “la tragedia greca”, altra inutile impresa dove si sarebbe dovuto “spezzare le reni ai greci”. Infatti… L’aviazione fu purtroppo usata con la mentalità della Prima Guerra Mondiale, semplicemente come appoggio alla fanteria, o come mezzo di perlustrazione, relegandola così ad un ruolo secondario, in maniera dispersiva ed inutile. Atterrando su campi pieni di fango fu soggetta ad inevitabili incidenti, o costretta a mitragliare inutilmente le rocce montane senza mai colpire i greci, che rimanevano ben nascosti. L’apporto dell’aviazione anche qui fu pressoché inutile.
Flaccomio è diretto e schietto nei suo commenti e senza troppi scrupoli incolpa pesantemente i comandi dell’Aereonautica di aver avuto un approccio bellico anacronistico, utile solo a creare nuove vedove, sacrificando inutilmente validi e coraggiosi piloti. In Russia non andò meglio, i nostri caddero come mosche stecchite mentre cercavano di portare vanamente rifornimenti a chi era rimasto circondato dai russi. Scene apocalittiche: motori congelati che non si accendevano, componenti essenziali per il volo che si ghiacciavano facendo precipitare interi equipaggi, aerei talmente lenti da essere continuamente abbattuti dalla contraerea russa. Quei pochi che riuscivano a sfuggire ritornavano crivellati dai colpi con l’equipaggio decimato.
Non dimentichiamo la guerra del deserto, non certo migliore: caldo, scarsità di acqua e cibo, scorpioni, sabbia che divorava mezzi, uomini e armi; attacchi nemici repentini ed improvvisi, tutto per conquistare qualche centinaio di chilometri di sabbia.
Insomma anche questo secondo libro si rivela interessante e piacevole, nonostante la drammaticità degli eventi riportati, che vengono descritti con tatto, discrezione e profondo rispetto, con la giusta dose di critica, inserita però sempre con ponderazione, per evitare di mettere in secondo piano l’indubbio sacrificio e l’impegno dei suoi compagni.