Prima di iniziare il cammino della “taglia” Guelfa, i comandanti: i francesi Guillaume de Durfort, Aimeric de Narbonne, e con l’aiuto dei fiorentini: Vieri de Cerchi, Bindo degli Adimari, Corso Donati (all’epoca Podestà di Pistoia), Barone dei Mangiadori, il Podestà di Firenze Ugolino de Rossi, Maghinardo Pagani detto “demonio”, “Vetraia de Tornaquinci”, in accordo con gli alleati, e su consiglio degli esuli Guelfi di Arezzo, presero la decisione di prendere la vecchia strada che collegava il Casentino con Firenze ed il Valdarno.

Strada impervia con il valico dell’odierna Consuma da superare. Presa questa decisione il 2 giugno l’esercito attraversò l’Arno fra le località di Rovezzano e Varlungo, proseguendo verso Pontassieve ed attaccare la strada per il passo della Consuma. Prima di entrare in Casentino, si fermarono in località Fonte allo Spino, dove l’esercito si poté riposare e rifocillare prima di riprendere la marcia verso Arezzo.

Quando gli aretini seppero del cambiamento di percorso dell’esercito fiorentino, dovettero modificare i loro piani. I comandanti della “taglia” ghibellina erano: il Vescovo di Arezzo Guglielmino degli Ubertini, Guglielmino Ranieri detto “pazzo” dei Pazzi del Valdarno, Guidarello di Alessandro da Orvieto, Guido Novello dei Conti Guidi, Bonconte da Montefeltro e suo fratello Loccio, e Ghibellini giunti da ogni parte d’Italia, si consultarono e presero la decisione di cambiare strada, e di mettersi in cammino verso Bibbiena per difendere i castelli e i possedimenti dei Conti Guidi e degli Ubertini.

La scelta di passare dal passo della Consuma e dal Casentino da parte dei comandanti Guelfi si dimostrò vincente. I castelli trovati lungo il percorso, colti di sorpresa non opposero resistenza agli invasori, che sciamarono nelle valli sottostanti. I Ghibellini per non trovarsi bloccati nei castelli del Casentino e per fermare il saccheggio delle campagne, accettarono lo scontro in campo aperto. Il luogo fu individuato nella piana di Campaldino fra i paesi di Poppi e Pratovecchio, vicino alla chiesa di Certomondo (fatta erigere dai conti Guidi, per ringraziamento della vittoria di Montaperti) situata sulla sinistra dell’Arno.

Ad ingrossare le file dell’esercito aretino, c’erano molti rappresentanti dei Ghibellini toscani, della Marca, e del Ducato di Spoleto, e della Romagna. Molti erano reduci dalle Giostre del Toppo dell’anno precedente, e il loro armamento era composto da armi e armature dei 300 cavalieri uccisi o fatti prigionieri. I nemici dei fiorentini, erano soldati forgiati da mille battaglie e dall’addestramento per perfezionare l’intesa fra fanti e cavalieri. Questa intesa era così forte, da sfruttare gli spazzi nei ranghi degli avversari, fatti dalle truppe montate.

Mentre nel campo Guelfo si trovavano le milizie cittadine, composte da artigiani e mercanti poco avvezzi alle battaglie. Nel campo Ghibellino le armi non differivano molto da quelle degli avversari. I fanti erano armati di spada corta e “brocchiere” (scudo rotondo con una cuspide al centro), “coltella” (armamento dei contadini), pugnali e spade corte, la mannaia aretina (grossa scure da impugnare a due mani), armi ad asta, lance lunghe. La mancanza di milizie cittadine nell’esercito ghibellino si notava nella scarsità di balestrieri.

Il conte Guidi e il Vescovo Ubertini, erano molto preoccupati per i loro possedimenti razziati dai Guelfi, ma anche per salvaguardare i loro castelli di Poppi e Bibbiena. Percorsero la distanza dal paese di Laterina a Poppi velocemente, mentre i nemici si trovavano a “Monte al Pruno”. Giunsero al campo di battaglia per primi nel pomeriggio del 10 giugno, si schierarono davanti al castello dei Conti Guidi, dove avrebbero potuto rifugiarsi se lo scontro si fosse messo al peggio, e tenersi la strada libera per il monastero di Camaldoli, da raggiungere in ritirata e aver rinforzi dalla Romagna. In preparazione dello scontro, i “marraioli” si diedero a preparare il terreno spianando la terra e riempiendo i fossi che li si trovavano.

I Guelfi partiti da Firenze il 2 giugno arrivarono al Convento Camaldolese di Santa Margherita in Tòsina nel pomeriggio del 5 giugno, e li ricevettero la benedizione per la battaglia che stavano per affrontare. Ripartiti il 7 giugno arrivarono a Borgo alla Collina possedimento dei Conti Guidi di Castel San Niccolò (Guelfi) ultima sosta in vista della battaglia. Ripartirono la mattina del 10 giugno e arrivarono nel pomeriggio dopo otto ore di marcia a Campaldino.

L’avanguardia guelfa giunta nella piana vide gli avversari schierati, avvertirono Amerigo di Narbona di quello che avevano trovato. Il comandane galoppò avanti per sincerarsi di persona di come erano disposte le truppe nemiche e il loro numero. Anche Bonconte nel campo avverso volle vedere di persona la consistenza dell’esercito nemico. Salì sulla torre del castello dei Guidi di Poppi per osservare meglio. Vista la situazione parlò con il Vescovo, suggerendo di evitare lo scontro. Costui si infuriò e offese il Duca, tacciandolo di viltà. Bonconte lo sfidò a seguirlo nella mischia più profonda, promettendoli che se l’avesse seguito non avrebbe salvato la vita.

La mattina seguente dell’11 giugno i due eserciti si prepararono alla battaglia. Vieri dei Cerchi ebbe l’incarico di scegliere coloro che dovevano reggere il primo urto della cavalleria avversaria. Ma vedendo fra i cavalieri del sesto di San Piero la poca voglia di offrirsi, si segnalò per primo pur essendo anziano e menomato ad una gamba, seguito da un figlio e dal nipote. Tra i “feditori” a cavallo, prestò la sua opera il futuro poeta Dante Alighieri, il quale raccontò della battaglia a cui aveva partecipato, e quando si era trovato nel mezzo della mischia, aveva provato “temenza molta” per conservarsi incolume, tanta contentezza quando alla fine della pugna era ancora illeso.

Presa la decisione da ambedue le parti, il Vescovo Ubertini, inviò agli avversari il guanto di sfida, subito accettato dai fiorentini, contenti che tutto si svolgesse secondo le regole della cavalleria. Dopo aver concordato con i nemici di combattere l’indomani mattina, ordinarono ai “palaioli” e “marraioli” di livellare il terreno dello scontro, come avevano fatto i ghibellini. Il giorno dopo 11 giugno giorno dedicato a San Barnaba, i due eserciti erano pronti allo scontro, come usanza consolidata, assisterono alla messa, i Ghibellini ebbero la benedizione dal loro Vescovo. Fecero una parca colazione e si prepararono alla battaglia.

Gli aretini si prepararono ad attaccare i fiorentini, sistemati in posizione difensiva. I guelfi si erano schierati con in prima fila: 150 “feditori a cavallo”, seguiti dai “palvesari”, 600/800 fanti (lancieri equipaggiati con armi ad asta), e balestrieri. La terza fila era costituita dal corpo principale della cavalleria fra 950/1100 uomini d’arme, altri “palvesari”, lancieri con armi ad asta, e altri balestrieri, a seguire salmerie, “villanata” “palaioli” e “marraioli”, qualche cavaliere isolato circa 4500/5000 uomini. E per riserva al comando di 200 cavalieri e 500/600 fanti, tutti pistoiesi al comando del loro Podestà il fiorentino Corso Donati. Conoscendo il carattere focoso di Corso, l’avevano pregato di non muoversi, e di aspettare l’ordine per entrare in combattimento, pena se avesse disubbidito il taglio della testa.

Alberto Chiarugi
Partenza da Firenze verso Arezzo
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