C’è chi azzarda che Via “Vinegia” fosse un’antica via “Venezia”, nata per ospitare soprattutto veneziani inurbati sulle rive dell’Arno. In una città che contava già Via Pantani, via de’ Fossi, via Sguazza e, più tardi, via del Diluvio – per le continue piene del fiume – non c’è da meravigliarsi se anche i fiorentini si fossero abituati a una piccola laguna, simile a quella veneta, anche se più domestica e meno famosa.

Ma l’uso più comune di quella “Vinegia” fa pensare che qui abbondassero le osterie, e la strada altro non fosse che la “via del vino”.

È vero che i fiorentini, forse sull’esempio di quel primo romano Rubezio che coltivava la vigna oltre Varlungo, si mostrarono fin dall’antichità dei perfetti enologi. Perciò non fa meraviglia se, non solo in via Vinegia, ma un po’ ovunque, vi fossero osterie, bettole e cantine. In via del Fico, l’albero che cresceva oltre il muro di cinta, aveva radici nel giardino di un’osteria, appunto l’Osteria del Fico.

Chi teneva una mescita aveva poi un segno convenzionale sullo sporto della bottega: una bella frasca fronzuta pendula a indicare che lì si trovava buon vino. Una specie di simbolico cartello, non dissimile da quello che il messo di Santa Romana Chiesa lascio a Montefiascone per indicare al suo superiore che il vino, da quelle parti, era buonissimo. Un “est, est, est” ermetico, significava quella rustica frasca. E tanto il segno fu ben conosciuto che presto corsa un proverbio: “chi non vende vino non metta frasca”.

Le “frasche”, dunque, in città, si dovevano trovare un po’ dovunque. Pur di potersi centellinare il vin bono, i fiorentini non facevano questione di locale o di spazio. Erano disposti a chiudersi anche nell’osteria di un piccolo Chiasso, tanto angusto e stretta da chiamarsi “Il Buco”, ma tanto famosa da distinguere inconfondibilmente uno sdrucciolo: il “Chiasso del Buco”. Questo locale faceva addirittura trattoria e il suo oste era rinomato in tutta Firenze. Altre osterie avevano poi la stessa disponibilità di spazio, solo variavano i nomi fino ad essere chiamati “pozzi”. Uno, intitolato persino alla dantesca Beatrice!

Senza più voler scomodare Dante, anche via dell’Inferno deve il suo nome ad un’antica osteria, dove i fumi del vino ammorbavano tanto l’aria da ricordare i vapori infernali. L’Osteria del Purgatorio era più virtuosa. Quasi idilliaca quella del Paradiso.

Per i viandanti e gli ospiti frettolosi, c’erano numerose cantine, perché non tutti i “passanti” avevano il tempo di fermarsi al banco dell’Osteria. I più indaffarati, come la gente del contado che arrivava in città magari su un carro di fieno o di legna, tiravano la briglia al cavallo e posteggiavano un istante davanti ad una piccolissima finestra arcuata: quella di una cantina. Pagavano “un grosso” e ricevevano il tozzo bicchiere, magari più spesso richiedevano un boccale, per calmare la sete del lungo viaggio. La piccola apertura bordata di pietra e gentile nel profilo, come l’arco di un ciborio, accoglieva poi bicchiere o boccale vuoti, mentre l’uomo si puliva la bocca col rovescio della mano. Il vino toscano era spesso così generoso, che il barrocciaio accompagnava quasi sempre il saluto facendo schioccare la lingua contro il palato asciutto. L’uomo della cantina e quello della strada, saranno diventati amici. Forse, due chiacchiere avranno accompagnato il rapido gesto del passante e del cantiniere.

Sulle facciate di antichi palazzi fiorentini fanno bella mostra di sé delle piccole finestrelle centinate, poste ad altezza di “braccio” e generalmente – se non sono murate – ancora dotate della loro porticina di legno originale. Queste curiose finestrelle, chiamate “buchette del vino”, come certo la maggior parte di voi sa, erano dei veri e propri punti vendita! Esse rappresentano un unicum della città di Firenze. Furono progettate ed imposte direttamente dalla Signoria nel XVII secolo alle nobili famiglie fiorentine: queste possedevano grandi appezzamenti terrieri nel contado, coltivati a vigna e olivo. Ma una particolare congiuntura economica negativa, li portò a richiedere alla Signoria di poter vendere le eccedenze di produzione vinicola anche ai passanti ed integrare così i loro ricavi. Il vino veniva principalmente venduto nei fiaschi, la cui origine si può far risalire alla fine del Duecento quando, nelle zone della Val d’Elsa e del Val d’Arno, numerosi mastri vetrai cominciarono a produrli.

Fin dai primi anni del Trecento, si cominciò a rivestire il il fiasco di vetro con un’erba palustre molto diffusa in stagni e acquitrini, localmente chiamata sala o stiancia, la cui funzione era quella di evitare la rottura del contenitore durante il trasporto.

Ma anche “l’esercizio” delle cantine aveva il suo orario. Poiché anticamente non c’erano giornali, l’orario del negozio era scolpito sul muro vicino alla piccola finestra. Venendo da via della Spada, sulla destra, quasi in angolo allo slargo da cui comincia via delle Belle Donne, c’è un piccolo rettangolo di pietra incisa che declama gli orari di apertura della cantina, nei vari periodi dell’anno. “Dal primo maggio…. “ si comprende che iniziava una una specie di orario primaverile, e la data cade a proposito. Il primo giorno di maggio, a Firenze si celebrava la festa dell’amore. “Ben venga maggio e il Gonfalon selvaggio… ”.

Il selvaggio gonfalone non era un rustico stendardo, ma un ramo fiorito, di pesco, di mandorlo magari, traforato di petali bianchi o rosa, appena variato di piccole foglie nuove nuove come la stagione. Se la ragazza era amata, il giovane appendeva al batacchio del suo portone questo ramo fiorito. Se l’amore non era corrisposto, si trovava una resta di cipolle a cavalcioni di quel ferro brunito. Le cipolle, si sa, fanno lacrimare e inducevano, con la loro piccola sfera soda e tonda, uno dei due sfortunati giovani al pianto.

Gabriella Bazzani Madonna delle Cerimonie
Per chi abita in… Via Vinegia: La via del vino
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