Quando si ottiene il sì ad un’intervista si procede ovviamente a cercare informazioni sull’intervistato. Studi, opere, passioni, idee per il futuro. Materiale con lo scopo di approntare delle domande che permettano all’intervistato di raccontarsi e farsi conoscere. Giuro che mai come in questa occasione ho serie difficoltà nel mettere insieme delle domande. Sia io, Gabriella ed Enrico ci siamo impegnati, ed ovviamente le abbiamo trovate, ma la difficoltà è stata molta. Mancanza di materiale, penserete voi. Sbagliato, eccesso di materiale. Carlo Lapucci ha scritto e fatto così tanto che ci smarriamo rischiando di perdere un filo conduttore che possa raccontare questo incredibile autore. Lo scibile in cui la penna del Lapucci si è immerso è talmente vasto che, per forza, tocca sezionare il suo lavoro, dividerlo per settori e affrontarli uno alla volta o il rischio di perdersi è altissimo. Nonostante questo ci abbiamo provato, con il serio rischio di apparire sciocchi e profondamente incolti.

In fondo all’articolo riporto la produzione letteraria del Prof. Lapucci, perchè sono convinto che per chi apprezza la cultura popolare e la storia fiorentina ci sono testi che non possono mancare nella biblioteca di casa.

Di pochi giorni fa la notizia che il Comune di Firenze a conferito a Carlo Lapucci il Fiorino d’Oro.

Jacopo: L’incontro con il Professor Lapucci ci presenta un uomo che è sicuramente un fiorentino DOC e che, ancora prima di cominciare l’intervista, si distingue in qualche battuta su di me dato che ci già ci conoscevamo per motivi professionali. Ci dice che l’intervista è gradita, dato che verrà presentata a breve la pubblicazione di una tesi che parla di lui e del suo lavoro. Il fiorentino riemerge e si schernisce dicendoci che, durante la lettura della tesi, si è accorto che la sua è una vita squallida senza uno scandalo, senza un briciolo di illegalità.

Lapucci: Si figuri, ho sempre pagato anche tutte le tasse. Gli altri scrittori hanno tre o quattro figli naturali sparsi per il mondo. Non certo come “La fuga dei piombi”, quelli sì che sono scrittori seri. Io invece niente scandali, squallido come ho detto.

Jacopo: Una risata e partiamo con la prima domanda. Come nasce la passione per la poesia e per la scrittura in generale?

Lapucci : Io non ho mai detto: “io sono o io voglio essere”, ho sempre detto vediamo che cosa mi riesce di fare. Il mio primo amore in realtà è stata la musica, ho suonato anche ad un certo livello e ho provato anche a comporre, ma non mi veniva fuori nulla. Neanche un’idea. Ero un grande innamorato della musica, ma la musica non mi ha voluto e allora ho fatto come Jaufré Rudel, ho amato io la musica. Così è l’arte ed io ho sempre amato e ascoltato la musica. Al tempo stesso però ho amato anche la letteratura, e lì c’è stato un momento che ha cambiato la mia vita.

Gabriella: Che cosa ha cambiato la sua vita?

Lapucci: Ricordo che ero piccolino e vivevo nel Mugello, avrò avuto 8-9 anni, ed ebbi il morbillo. Ovviamente mi toccò stare a letto per molto tempo. Avevamo una radio e con quella passavo il tempo, un giorno dettero una riduzione radiofonica dell’opera di Tolstoj “Resurrezione”. Io mi entusiasmai per questa storia. In pratica Dmitri Nechljudov, un  principe, inguaia una donna di servizio che poi è costretta a fare “la vita”. Lui stesso in seguito si ritrova come giurato al processo in cui questa donna viene sottoposta a giudizio per omicidio. Durante il processo Dmitri ha un risveglio della coscienza. Ecco, questa situazione mi affascinò e ricordai di aver visto questo libro da qualche parte. Mi venne in mente che in uno sgabuzzino c’era uno zaino che conteneva alcuni libri, uno zaino lasciato lì durante la guerra, abbandonato.

Jacopo: Ha trovato la sua vita dentro uno zaino?

Lapucci: Esatto. Dentro questo zaino trovai più libri, tra cui anche questo di Tolstoj, “Resurrezione”. Ricordo ancora che era della casa editrice Bietti, mi pare. Era un libro di poco valore, fatto di cartaccia nazional-popolare. Questo romanzo lo lessi tutto di un fiato; considerando che avevo 9 anni sembra incredibile, ma è così. Oltre al romanzo di Tolstoj, dentro questo zaino c’era anche un libro sui proverbi, l’Arthaber, un dizionario di proverbi in tutte le lingue più comuni, cioè greco, latino, ecc.

Jacopo: Cioè un dizionario con i proverbi che erano comuni alle varie lingue?

Lapucci: Esatto, un dizionario dei proverbi espresso in varie lingue. Proverbi comuni fra le lingue. Ed anche questo libro mi andò proprio “a pipa di cocco”. Poi c’erano una antologia e anche la Divina Commedia di Dante. Lì mi arenai un poco, a capire Tolstoj ancora ci si arriva, ma con Dante avevo delle difficoltà. Mi aiutò molto mio babbo che mi leggeva qualche canto, quelli che ricordava, dei brani tipo il Conte Ugolino, Farinata degli Uberti.

Ecco, da questi tre elementi sono venuti fuori i miei tre interessi, cioè la narrativa, la poesia, le tradizioni popolari e la linguistica popolare.

Enrico: Quindi passione per la lettura, ma poi anche per la scrittura.

Lapucci: Quella poi viene da sé. L’errore che perpetrano le persone, anche molti di quelli che vengono qui a chiedermi consiglio, a farmi leggere i loro lavori, è che hanno poco interesse per quello che hanno fatto e realizzato, a loro interessa principalmente sapere se il risultato sarà qualcosa di valido. Con questo modo di pensare in realtà si va poco avanti. Io, in effetti, sono stato a “friggere” per molto tempo.

Gabriella: In che senso a “friggere”?

Lapucci: Significa che per molto tempo ho scritto e ho buttato via, scritto e buttato via. Cioè, mi rendevo conto che alla fine avevo scritto una comunanza e non ha senso rompere le scatole alla gente con qualcosa di non valido. Bisogna interrogare la vita e studiarsi, per capire quali doti abbiamo.

Jacopo: In che momento si è “evoluto”?

Lapucci: Quando sono stato un po’ più grande sono tornato di casa proprio vicino alla sede di una rivista di poesia e letteratura, l’ultima fondata da Giovanni Papini e Adolfo Oxilia. Papini l’ho incontrato raramente, perché cominciava ad avere una certa età, era Oxilia che in realtà contava molto all’interno della rivista e che cominciò ad apprezzarmi per quello che scrivevo. Scrivevo queste poesie e la rivista le pubblicava. Ecco, io in questo periodo ho imparato che non solo c’è bisogno che Dio ti dia la capacità di fare poesia, ma anche che ti devi evolvere. Non devi semplicemente scrivere della poesia, devi scrivere la “tua” poesia, ed è questa la cosa difficile. Questa evoluzione. 

Quando si va a scuola, giustamente, si scrive la poesia degli altri, cioè si scrive quello che avrebbero dovuto scrivere gli altri secondo noi. Quella è una produzione poetica letteraria di cui si può fare una pallottola del foglio e buttarla via. Però aiuta perché un giorno arriva l’illuminazione, se viene, ed uno si accorge che in realtà sta facendo il verso agli altri. Cioè sta scrivendo quello che in realtà è già stato scritto da altri. Quando mi accorsi di questo, capii che non andava bene e ho trascorso ben 10 anni senza più scrivere un verso.

Nel frattempo scrissi in prosa, scrissi altre cose, ma non più poesia.

Enrico: Poi però ha ripreso a scrivere poesia, è arrivata l’illuminazione.

Lapucci: Ricordo che un giorno andai a Roma per fare una trasmissione televisiva. Si chiamava “La luna nel pozzo“, ed io ero autore di tutti i testi di questa trasmissione ed una volta la settimana scendevo a Roma. Tornando da Roma con mia moglie, ci fermammo in Abruzzo dove avevano costruito un lago artificiale. La realizzazione del lago aveva alterato l’immagine del posto. La campagna non era più riconoscibile per come la ricordavo.

Ecco, mi ricordò la campagna cinese. Non so se avete mai letto la poesia cinese: quando un poeta cinese scrive una poesia, deve accoppiarci un’immagine. La campagna che stavo vedendo adesso mi ricordava quelle immagini cinesi.

Mi venne questo pensiero, “l’Italia è come la Cina?”. Una folgorazione di leggere l’Italia come la Cina, dove tutto si muove, ma in realtà non avviene nulla. Questa immobilità sostanziale dentro la rivoluzione. Dove sembra si disfaccia tutto tutti i giorni e in realtà non cambia niente. Letto in questi termini il mio mondo cominciò a parlarmi.

Enrico: …e cosa le ha detto?

Lapucci: Quella che mi venne fuori era una lettura completamente fuori dal politically correct. Per capirci, a quei tempi lì, in cui tutto era contestazione, andare a dire che la realtà non si muoveva per niente, voi mi capite, era un ossimoro…

C’è un pensiero bellissimo di Dostoevskij, che dice di Cavour: “Grandissimo statista, ma ha preso degli stati con delle prospettive metafisiche e ne ha fatto uno staterello miserabile”. Prima dell’unione italiana c’era la scienza, l’arte. Quando poi è arrivato il Regno d’Italia si è impastato tutto. Pensando agli scienziati, avevamo Galvani, avevamo architetti che esportati hanno costruito mezza Russia e anche nella musica avevamo artisti di prim’ordine. Quindi i piccoli Stati avevano questa spinta che Dostoevskij chiama di ordine metafisico, ma nell’unione, nella creazione dell’Italia abbiamo perso tutto. La stessa cosa la diceva anche Orson Welles.

Gabriella: Rispetto al detto e alla tradizione popolare, su cosa si basa la sua ricerca?

Lapucci: La vocazione al detto popolare è del tutto fortuita per me. Io non avevo nessuna intenzione di occuparmi di questo aspetto della letteratura, la mia strada principale era proprio la letteratura di per sé stessa.

Gabriella: Come ci è arrivato allora?

Lapucci: Ci sono arrivato per una questione di sensibilità personale, senza che nessuno mi dicesse nulla. Trovandomi nella condizione di vivere nel Mugello, ed essendo nato nel 1940, ho vissuto il Mugello negli anni della guerra, fino al 1950/51, in un ambiente che poteva essere paragonato a quello del ‘700. Per spiegarmi meglio, non c’era più la luce, l’approvvigionamento idrico non era più facile, non c’erano più i giornali, praticamente non c’era più niente. Io ho vissuto quel periodo della mia infanzia esattamente come viveva l’uomo prima della rivoluzione industriale, con tutte le difficoltà di allora, i divertimenti di allora, l’alimentazione di allora. L’attenzione al detto popolare arriva perchè è un seme che si è depositato in me in quegli anni. Questo seme viveva in me e io non me ne rendevo conto.

Gabriella: Lei in pratica ha vissuto come in una bolla temporale.

Lapucci: Esatto, quella, in pratica, è stata la mia università. Io mi sono portato dietro un bagaglio di informazioni che ho acquisito sul posto, in quella realtà, affrontando la vita in quei termini, in quel luogo, in quella situazione. Acquisendo questo bagaglio ho potuto verificare di persona quello che è il detto popolare, che cosa è la vita popolare attraverso questi detti. E proprio in virtù di questa mia esperienza diretta, mi rendo conto che tanti autori scrivono libri su questo argomento, ma riportano delle sciocchezze, perché non lo hanno mai vissuto nella realtà. Il mio babbo era anche lui cresciuto in quel contesto e lo stavamo rivivendo insieme, mi raccontava delle novelle e delle favole meravigliose. Lui era un narratore di novelle eccezionale ed io, piccolino, archiviavo queste informazioni, sia il suo modo di raccontare, sia le novelle stesse.

Jacopo: Queste informazioni come si sono evolute in seguito.

Lapucci: In seguito, da studente, mi trasferii a Montepulciano, terra natia di mia madre. A Montepulciano, come studente liceale, disponevo di una stanza, un piccolo studiolo, dove andavo a prepararmi per gli esami. Al piano sottostante, esattamente sotto questa stanzina si trovava un salottino dove mia nonna si incontrava con delle amiche e lì, tutte assieme, si raccontavano delle novelle. Si incontravano il pomeriggio, dopo pranzo. Si parla della fine degli anni ’60, io avevo 18 anni e mi meravigliavo, perchè pensavo che le novelle fossero un argomento per bambini, ed invece stavo sbagliando, le novelle erano e sono letteratura per adulti. Io, invece di studiare, presi un quaderno e senza che loro ne sapessero niente , ascoltandole, trascrissi tutte le novelle, una per una. Capii che questa era cultura, era letteratura e che andava sparendo. Questa mia osservazione mi è poi tornata utile perché Mondadori realizzò una grande collana sulle fiabe di tutte le regioni e a me chiese di occuparmi della Toscana. Io il materiale lo avevo, erano le novelle di mia nonna e delle sue amiche, oltre a quelle del mio babbo, in pratica avevo materiale di prim’ordine. Le novelle che mi raccontava mio padre da bambino lui le aveva sentite a sua volta da sua zia Enrichetta, una grande narratrice di novelle e di fiabe. In quei tempi le persone non potevano improvvisarsi narratori di novelle, dovevano averne le capacità, l’improvvisazione non era contemplata, venivi cacciato a calci se non eri capace, si trattava di cose serie.

Jacopo: Il dizionario dei modi di dire come nacque?

Lapucci: Il dizionario dei modi di dire l’ho scritto prima delle novelle Mondadori. Lavoravo per una casa editrice, la Valmartina, dove tenevo una rubrica di lingua italiana; mi accorsi che non esisteva un dizionario dei modi di dire e quindi lo realizzai io. Il fatto di aver elaborato quel dizionario indusse Mondadori a scegliere me per le novelle.

Il lavoro di ricerca è stato un progredire, perché quando racconti una novella o una fiaba magari trovi un indovinello o un modo di dire e quindi devi approfondire l’argomento in un senso o nell’altro. Magari trovi un’usanza, un modo di fare, e quindi cominciai a crearmi uno schedario dove man mano inserivo tutte queste informazioni di cui venivo a conoscenza, che magari non adoperavo direttamente per quel libro, ma che dallo studio preparatorio di esso derivavano. In pratica ho investigato tutto il mondo popolare. Ad un certo punto, spinto anche dalla pietà,  perché mi rendevo conto che era materiale che andava a morire, iniziai la stesura di questo vocabolario dei modi di dire, conscio del fatto che si trattava di conoscenza che sarebbe andata persa. E credetemi, in questa fase venni deriso e poi fui anche soggetto di insulti.

Enrico Bartocci
Enrico Bartocci

Enrico: Addirittura insulti? Per quale motivo?

Lapucci: Abbiamo una memoria labile, corta.  In quel periodo c’era la convinzione che un’epoca era terminata e ne cominciava una nuova. Tutto quello che faceva parte della vecchia epoca doveva essere abbandonato, c’era addirittura sdegno verso quello che era il passato, per tutto ciò che veniva prima di quel momento.

Il cammino verso l’industrializzazione fu un passaggio epocale; i contadini abbandonavano la terra, la odiavano questa terra perché per loro era stata sofferenza e fatica. Tutto quello che apparteneva al mondo agricolo, alla tradizione della terra veniva rifiutato, doveva essere dimenticato. Come conseguenza, tutte le persone che amavano questo aspetto del passato, queste tradizioni e che cercavano di mantenerle vive, erano mal viste dalla società, quantomeno con sospetto. Venivano identificate come persone che si opponevano al cambiamento, che rallentavano questa grande corsa verso il futuro.

Io invece ho sempre condotto il mio lavoro, questa mia ricerca, con una profonda convinzione che tutto ciò che l’uomo ha fatto è degno di profondo rispetto. Quando si trova qualcosa che ha un suo perché, un suo peso, una sua ragione, prima di distruggerlo si deve trovare il giusto sostituto. Questo è importante, altrimenti la vita sarà vissuta peggio.

Tutto questo materiale, che ho organizzato anche con criteri diversi rispetto ad altri criteri filologici, sono convinto che sia un patrimonio che tornerà comodo all’umanità, magari più in là nel tempo. Le persone torneranno a pescare in questo patrimonio perché qui dentro ci sono i germi profondi di quella è la nostra storia, la nostra vita.

Jacopo Cioni
Jacopo Cioni

Jacopo: Una sete di conoscenza del passato?

Lì ci sono le nostre origini, se lei ha gli occhi celesti è perché un suo parente, prima di lei, ha avuto gli occhi celesti. Se lei ha un problema medico una delle anamnesi per conoscere il suo stato di salute è sapere di quali patologie ha sofferto in passato e se ne esistono di ricorrenti nella sua famiglia.

Quello che siamo oggi viene da quello che si era ieri, se la gente non accetta questo non può comprendere nemmeno quello che si è oggi.

Esiste un autore americano molto bravo, di cui adesso mi sfugge il nome, che ha visto nella cultura europea, di tutta l’Europa, gli stessi schemi che sono presenti nella Bibbia, perché questo testo, bene o male, ha fecondato tutto il nostro passato e di conseguenza questi schemi li ritroviamo ancora oggi.

Quando si parla della lingua madre si parla di tutto ed è per questo che io ho trattato nel mio lavoro, questo aspetto in tutte le sue forme, dalle filastrocche alla canzone, dalle leggende alle fiabe.

Gabriella Bazzani

Gabriella: La sua ricerca si è basata più sul parlare con le persone, ascoltare i loro racconti, o su una ricerca d’archivio.

Lapucci: Prima di tutto, ho sempre circoscritto il luogo. Sa quante volte mi hanno chiesto di scrivere qualcosa sulle novelle di quel posto o di quell’altro. Io ho risposto di no, perché non era il mio ambiente. L’ho fatto rispetto al mio luogo di cultura perchè su quello ho esperienza e ho i libri dove cercare il materiale. Io sono qui, ho vissuto in questo contesto e quindi so benissimo di cosa parlo. Per farle un esempio, quando scrissi il libro delle fiabe usai il termine “al tocco”, la casa editrice voleva sostituirlo con il termine “mezzogiorno”. A parte il fatto che il tocco non è mezzogiorno, ma le tredici, il tocco è il tocco, cioè un modo gergale tipico di esprimersi, non puoi sostituirlo, al limite si può fare una nota a piè di pagina per spiegarlo.

La lingua è una classificazione, una etichettatura del mondo che fatta in un modo ha un senso ma fatto in modo diverso assume tutto un altro senso. Per capirsi, un eschimese ha trenta modi diversi per definire il ghiaccio; noi ne abbiamo uno, due al massimo. Questa è una differenza essenziale perché quando lui usa un termine io lo traduco come il ghiaccio, ma per lui non è semplicemente ghiaccio dato che lui usa parole diverse  per indicare diversi aspetti del ghiaccio. Queste finezze fanno la differenza fra un modo di esprimersi ed un altro.

Oggi il mondo ha fatto un balzo in avanti notevole perché le persone sono uscite dall’analfabetismo e si sono affacciate alla cultura e questa fame di cultura si è sfogata nel tempo. Il mondo digitale, internet, ha permesso a molte persone di migliorarsi, ma in realtà esprime un limite in quanto le informazioni che si trovano in rete sono informazioni limitate verso l’alto e standardizzate verso il basso.

Enrico: Internet è però solo un mezzo…

Lapucci: Sì, ma entrare in internet è come entrare in una biblioteca, lei lì trova solo il vecchio. Lei trova ciò che già c’è, come l’università, ciò che già esiste. Attenzione, sono cose importanti, degne di esistere, ma niente di nuovo nell’evoluzione dell’uomo, che avviene al di fuori di quegli ambienti, tutta la nuova “follia” è nata fuori da questi ambienti.

Enrico: Adesso vanno di moda le scuole di scrittura, come se un grande autore fosse uscito da una scuola di scrittura. Come diceva lei, uno deve imparare a scrivere il suo, non come scrivono gli altri.

Lapucci: Trovare il proprio modo di scrivere non è facile. In questo non esiste democrazia, il talento ti viene dato, a te il compito di capire quale. Se io avessi insistito nella musica, cosa avrei fatto? Sarei diventato un maestro di conservatorio: servono anche quelli, ma non avrei espresso il mio dono, quello che io veramente ero capace di fare e sarei stato infelice perché avrei saputo che dentro di me c’era qualche cosa, della roba, che attraverso ciò che facevo non poteva passare. Io sapevo di avere talento, ma dovevo capire in cosa, quindi bisogna anche essere umili e provare, anche sbagliando.

Enrico: Prima lei diceva che “friggeva”, cioè scriveva e buttava via; oggi vedo invece la gente scrivere e mettere su Internet, cioè non si analizza più, non si misura.

Lapucci: Oggi il livello della cultura di scrivere è aumentato a dismisura. Chiunque ha voglia di scrivere ha a disposizione molte maniere per farlo, ma da scrivere a fare il salto è altra cosa, il salto costa sacrificio e sangue.

Chi ha scritto non ha mai avuto una vita tanto felice, come anche io, il talento è sempre costoso. Io dico sempre che tre fortune sono difficili a tenersi e a gestirsi: la bellezza, la ricchezza e l’intelligenza. Sembra banale, ma guardate che fine hanno fatto Rita Hayworth o Marilyn Monroe…

Oggi c’è questa aspirazione di molte persone a scrivere, che trova spesso sfogo in quella che noi definiamo letteratura di consumo, gli americani la chiamano letteratura triviale. Gli americani in questa letteratura sono bravissimi, si riuniscono in tre o quattro facendo letteratura composta e scrivono libri, come il gabbiano Jonathan Livingston, quelle che io definisco “poponate”. Letteratura che ti consente di vendere milioni di libri, la gente segue questo genere di letteratura.

Jacopo: Se uno di questi libri fa un successo oltre la norma ne fanno una saga  sfruttando l’argomento a dismisura.

Lapucci: Infatti, e questo accade anche nella musica e nel cinema. Ovvio che fanno anche dei capolavori tipo “Mezzogiorno di fuoco” o “Un uomo tranquillo”, cioè capolavori assoluti. La confusione fra questa letteratura e quella di qualità è impossibile, non si può mischiare la vendita di milioni di copie con la qualità. Un esempio? Io ho saputo che la Feltrinelli non vuole festeggiare i 60 anni de “Il Gattopardo”. La Feltrinelli pubblicò suo malgrado “Il Gattopardo”, non intendeva stamparlo e Vittorino rifiutò due volte la pubblicazione. Perché? Si trattava di un romanzo conservatore, non era politicamente corretto in quel momento. Però era un grande, bellissimo romanzo, e alla Feltrinelli ha dato la ricchezza. Il Gattopardo e Dottor Zivago, questi due romanzi hanno fatto il successo della Feltrinelli, purtroppo ancora oggi c’è questa “resistenza”, questa fissazione ideologica rispetto al romanzo che gli ha dato da mangiare.

Molto più facile fare un romanzo sulla Resistenza dove metti tutti d’accordo. Il libro che segue la scia. Nella realtà, se realizzi un’opera d’arte non può essere a favore o contro, deve essere onesta e va valutata per quello che è. Se uno segue la scia è più facile, crei letteratura che le persone sono già abituate a leggere e quindi di facile comprensione. Pensate quando nacquero “I fiori del male”, con Baudelaire si ebbero dei processi, delle resistenze. Addirittura il movimento del naturalismo francese, Zola per capirsi, si scontrò contro questo libro, definendolo un’opera che entro breve tempo, pochi anni, sarebbe scomparsa dalla letteratura. Due soggetti davvero forti, che avevano visioni della realtà diverse, ma ognuna con il suo fondamento. 

Oggi sappiamo che se c’era qualcuno che aveva capito veramente qualcosa della modernità era Baudelaire, non certo Zola. Baudelaire è il primo che scrive degli operai delle periferie, appunto i fiori del male. Di questa società disperata che era stata buttata fuori dalle campagne, dei sobborghi di Parigi, delle periferie industriali. Lui è stato il primo a tirare fuori questi argomenti.

Gabriella: I proverbi, come risaputo, nascono dal popolo, racchiudono in loro sia l’atavica saggezza che l’esperienza pratica e molto spesso erano una specie di “dictat” cui uniformarsi nello svolgimento di lavori stagionali, un monito a non commettere determinati errori. Ritiene che questa possa essere una giusta interpretazione?

Lapucci: Sì, del resto se lei vuol capire che cosa è l’uomo, intendo l’uomo italiano, non esiste metodo migliore che attraverso l’analisi dei proverbi. Un esempio? Guardi subito dopo la caduta del fascismo il detto “Francia o Spagna, l’importante è che se magna”. Lei capisce immediatamente, trova subito il senso. Si ritrova il comportamento tipico dell’italiano, siamo un popolo vetusto, il Fiorentino dagli etruschi in poi, siamo un popolo ormai stanco.

Il proverbio è quindi una cosa importante, ma come lo intendo io, non come è inteso da molti. Tanti tendono a darne un significato comune e ideologicamente schierato. Il proverbio è sempre stato inteso come qualcosa che ti frena, gli è sempre stato dato un aspetto da vecchio, frasi da persone vecchie, da persone conservatrici. Ecco, se qualcuno si mette a fare un lavoro di recupero del “vecchio”, ti viene data l’etichetta di conservatore. Io sinceramente non sono mai stato un conservatore, anche nella scrittura, qualcuno mi ha accusato di essere stato anche troppo moderno.

Nella realtà questo patrimonio che abbiamo messo insieme è un patrimonio immenso, praticamente è il condensato dell’esperienza di un popolo che è diviso in 50 dialetti ma, cosa incredibile, in tutti i dialetti si ritrova lo stesso proverbio. Se si volesse incrementare l’unità italiana, basterebbe citare i proverbi, che sono tutti uguali da Trieste alla Sicilia.

Jacopo: Perchè oggi il proverbio è meno usato di un tempo?

Lapucci: Questo è dovuto ad un invecchiamento naturale, nel senso che i proverbi erano i libretti di istruzioni, erano i manuali, come diceva giustamente Gabriella. Difatti ci sono anche oggi dei proverbi di “carattere”, che riguardano il lavoro e sono ancora attuali. Si potrebbero riunire i proverbi del falegname, i proverbi del meccanico, andrebbero bene ancora oggi. I proverbi sono stati sostituiti in realtà dal fatto che, aumentando l’istruzione, tutti possono leggersi le istruzioni per l’uso e comprendere come fare, prima non era così.

Enrico: Poi oggi ci sono i video su YouTube, i tutorial e si impara tutto.

Lapucci: Però, nonostante tutto, taluni di questi proverbi esistono ancora, se frequenta la bottega del fabbro prima o poi un proverbio viene detto.

Gabriella: Il proverbio dovrebbe rappresentare la saggezza popolare, invece mi sembra che oggi venga utilizzato più come forma di scherno, qual è la sua opinione?

Lapucci: Quando un uomo diventa anziano diventa vittima degli imbecilli, partiamo da questo punto di vista. Perché il mondo è pieno di imbecilli che si sentono degli dei; chi ha la bicicletta ride di colui che va a piedi, ma non si rende conto che quella bicicletta è stata costruita da colui che schernisce. In pratica chi si sente superiore, in realtà è in posizione di inferiorità e l’unico modo che ha per apparire importante è quello di tentare di ridicolizzare gli altri. Lo stesso accade con i proverbi: li si tacciano di essere roba vecchia, inutile, fuori contesto, ma il proverbio è talmente forte che sopravvive a tutto. Non può immaginare quante volte mi sia capitato di trovare i miei libri sulla scrivania di giornalisti o di pubblicitari. I primi attingono ai proverbi per formare i titoli dei loro pezzi, i secondi ne traggono spot pubblicitari. Il mondo va avanti, ma a volte c’è bisogno di fare un passo indietro per poter progredire.

Jacopo: i proverbi hanno una forza dirompente, è un’immagine che ti raggiunge immediatamente.

Lapucci: Quando la Barilla ha presentato lo slogan “Con pasta Barilla è sempre domenica”, che ha avuto un grandissimo successo, il pubblicitario ha attinto ai proverbi per idearlo. Ma non soltanto. Io ho scritto libri di novelle ed anche un dizionario delle figure fantastiche, dove sono raffigurati i mostri della mente e dell’inconscio. Questi libri io li ho trovati sul tavolo di gente del calibro di Hugo Pratt e Milo Manara; attingevano dai miei libri le idee per poi trasformare e rielaborare in forma più moderna i personaggi da me narrati. Questo sta a significare che senza passato non si fa il presente e tanto meno il futuro.

Enrico: Quando prima ha parlato dei proverbi “da meccanico”, mi sono ricordato di una volta in cui da ragazzo portai il motorino dal meccanico, il quale lo guardo’ e mi disse: “o daglielo un po’ d’olio a questa catena… unn’ho mai visto un pezzo di ferro pigliassela a male se tu gli ha’dato un po’ d’olio”. Da quella volta ho sempre dato l’olio alla catena e sono sicuro che un manuale di manutenzione non sarebbe stato altrettanto efficace di questa frase che mi è rimasta impressa nella mente a distanza di tantissimi anni.

Lapucci: Ha centrato l’argomento. Il materiale che nel corso degli anni ho raccolto e riversato nei miei libri è moltissimo; si può affermare che sia stata un po’ la mia droga, nel senso che mi ero ritagliato un angolo di mondo fuori dal tempo: stavo benissimo in quel mondo rispettoso della natura, del passato e degli anziani. Ho scritto anche libri di cucina, naturalmente quella cucina che precedeva la rivoluzione industriale, che è stato il vero trauma. Cercate di capirmi, detto in questo modo sembra che io sia contrario alla rivoluzione industriale. Non è così, io sono grato alla rivoluzione industriale, che ci ha dato conoscenze tecnologiche tali da permetterci di vivere più a lungo in buona salute, per esempio. Il problema nasce soltanto nel momento in cui si rinnega il buono del vecchio e si idolatrano soltanto i nuovi sistemi. Per fare un esempio, in un mio libro ho dimostrato come, prima dell’avvento della rivoluzione industriale, esistesse un sistema eco-sostenibile, nel quale tutto veniva riciclato ed in pratica non venivano prodotti rifiuti. Tutto quanto aveva una seconda vita e quello che proprio non era possibile riciclare, veniva bruciato e la cenere che risultava da questa combustione era un ottimo fertilizzante, per cui neppure quella alla fine era un rifiuto. Si può dire che quel tipo di società era arrivata all’acme della sua evoluzione.

Gabriella: Pensare che oggi si fanno studi approfonditi per riuscire a riciclare quanto più possibile, mentre allora tutto avveniva nella semplicità più assoluta.

Lapucci: Se si mettono in giro sacchi di plastica eliminando totalmente quelli di carta, bisogna essere consci delle conseguenze. La carta è un prodotto biodegradabile, di origine naturale. Se la sostituiamo pressochè totalmente con la plastica, accade ciò che vediamo adesso. Il mare è un disastro: ci si ammazza l’un con l’altro perché questi pezzi di plastica microscopici son cancerogeni, non c’è nulla da fare, per i pesci e per noi.

Se avessimo mantenuto memoria di quel modello “antico” avremmo avuto già delle dritte su cosa fare e cosa non fare per devastare il creato in questo modo. I nostri avi avevano trovato un sistema per riutilizzare i rifiuti ed appoggiandoci alle loro conoscenze avremmo dovuto operare diversamente. Certo, al giorno d’oggi non sarebbe più possibile bruciare ciò che non si può riciclare ed utilizzarlo quale fertilizzante, quel mondo è finito, ma va ricostruito l’intero ciclo per trovare delle nuove destinazioni.

Quando veniva fatto il bucato nei tempi passati, facevano il famoso “ranno”: veniva fatto con la cenere, quella stessa che veniva anche sparsa nei campi. Niente veniva sottovalutato. I nostri avi avevano perfezionato un sistema di riutilizzo totale dei rifiuti, c’erano delle regole che andavano seguite e nessuno si sognava di fare diversamente, niente veniva lasciato al caso e questo costituiva un enorme tesoro anche in campo psicologico.

Prima di sposarmi ho scritto “Il canzoniere dell’amore coniugale”, un libro di quasi 800 pagine, nel quale ho raccolto tutti i componimenti poetici riguardanti il matrimonio.

Mi ero accorto che questa era un’istituzione che cominciava fortemente a scricchiolare e che quindi sarebbe stato il caso sia da parte dello Stato che da parte della Chiesa di prendere provvedimenti in merito.

A dire il vero, questo avrebbe dovuto essere l’argomento della mia tesi di laurea, che però non riuscii a sviluppare in quel contesto per problemi burocratici, e finii per discutere la tesi su tutt’altro argomento, sui sindacati.

Avevo però già raccolto moltissimo materiale e decisi di pubblicare questo Canzoniere, che si rivelò di gran successo, ma non nel senso che intendevo io: avrei voluto sollevare l’argomento, agitare un po’ le acque in merito, invece non venni chiamato neppure ad un dibattito. La realtà è che al momento tutti se ne fregavano di questo problema, solo dopo molto tempo hanno cominciato ad accorgersi della gravità, questo è il punto della questione.

Gabriella: Cosa intende esattamente con gravità del problema?

Lapucci: Le donne vennero “sbarbate” dalla famiglia, inserendole, anzi buttandole nel mondo del lavoro, ma in condizioni disgraziate. Non mi fraintenda, lei che è donna… non sto certo dicendo che le donne non dovessero avere un loro posto nella società lavorativa, ci mancherebbe. Ritengo però che avrebbero dovuto essere presi dei provvedimenti per agevolarle nel lavoro, perché non ci può essere perfetta equiparazione tra il lavoro maschile e quello femminile; le donne hanno anche una o forse due marce in più rispetto agli uomini, ma va considerato il fatto che tocca a loro la gestazione, che sempre loro si prendono cura dei bambini in fasce, che tutto questo è un lavoro importante da non sottovalutare e che anche nel mondo del lavoro deve essere considerato e non con un periodo di due o tre mesi pre e post parto.

Enrico: Certo, anche a livello psicologico la maternità non è uno scherzo.

Lapucci: Giusto a questo proposito, si può rimanere stupiti nel vedere come certi concetti della psicanalisi si trovino già nei proverbi. Ve ne dico uno: “I padri eterni fanno i figli crocifissi”. Riuscite a capire il senso di questo proverbio? Il proverbio ti lascia da solo a riflettere. Che significato può avere, che i padri eterni sono quelli che campano troppo, oppure che sono quelli troppo potenti, o quelli che ti condizionano l’esistenza? O magari una miscellanea delle tre ipotesi? La spiegazione è molto più prosaica: il Padre Eterno per eccellenza, ha avuto il figliolo sulla croce. Riuscite a capire come il proverbio sia insinuante?

Gabriella: Ma quando sono nati i proverbi?

Lapucci: Nella Bibbia si trova il libro dei proverbi, ed in ogni religione se ne trovano. Anche nel Corano si trovano moltissimi proverbi. Il proverbio ha un’ascendenza più che nobile, discende per rami fino a noi e, se lo si sa trattare, abbiamo in mano un grande strumento di interpretazione del mondo, una chiave di lettura fondamentale.

Enrico: Tra tutti i libri che ha scritto, ne ha uno che le è particolarmente caro?

Lapucci: Se parliamo delle tradizioni, il “Dizionario dei proverbi italiani” è il libro più cospicuo, ed è stato enorme il lavoro che ho fatto per interpretare e definire ogni singolo proverbio, che non è cosa facile. Talvolta ho passato interi giorni a cercare di fornire l’interpretazione ad un proverbio, è stato un lavoro sterminato, per il quale mi sono avvalso anche della collaborazione di altre persone e coloro che lo hanno apprezzato hanno capito il lavoro che c’era dietro. In Italia non esisteva un libro del genere; con tutte le migliaia di accademie che vi sono in Italia, nessuna mai ha tentato di fare un libro dei proverbi, perché è una cosa difficoltosissima, dove è facile scivolare nell’errore. Tu pensi che il proverbio voglia dirti quello, ed invece ti vuol far capire tutt’altro. Ad esempio, cosa vuol dire secondo voi “La madonna che non la volle, lo prese vecchio”?

Sembra più un indovinello che un proverbio, ma vi assicuro che si tratta di proverbio.

Jacapo: L’istinto mi porta a pensare che la donna che non ha voluto trovar marito da giovane si è dovuta poi accontentare di un vecchio.

Lapucci: Vede come è facile capire qualcosa di sbagliato? La vera interpretazione è che la madonna che non voleva la suocera, dovette prendere un marito vecchio, che era ormai orfano di madre.

Gabriella: Così aveva risolto il problema…

Lapucci: E quando la ragazza si lamentava della suocera, la mamma prontamente le diceva “la madonna che non la volle…”

Gabriella: Questo proprio non lo conoscevo!

Lapucci: Vede la potenza del proverbio? Ti fa subito sorridere, e già sei sopra al problema, hai dato un colpo d’ala; per la novella sposa che si lamenta è un po’ come vedersi esposti i fatti… avrai anche la suocera che “rompe”, però nel letto ti trovi un baldo giovane, cosa che non avresti avuto nel caso in cui la suocera fosse stata morta e sepolta. C’è un grande coinvolgimento mentale dietro un’apparente battuta. Occorre anche una certa finezza per apprezzarla; il proverbio si cita sempre quando si cerca di far uscire una persona da un suo coinvolgimento all’interno di un problema: con poche parole lo si mette di fronte a dei fatti, semplici e razionali.

Jacopo: Quindi se ho ben capito lei intende che occorre un cervello fino per apprezzare gli insegnamenti dei proverbi?

Lapucci: io ho scritto un librettino su cui ho fatto una conferenza, “La sapienza dell’ignoranza”; perché ignorare non è una colpa. Tutti abbiamo una cultura: la cultura è tutto ciò che mi permette di entrare nel giusto rapporto con il mondo, con Dio e con l’uomo e di stabilire dei rapporti di dignità e di giustizia con queste persone.

Se mi trovo nel deserto, il nativo del luogo ha più cultura di me, perché se lui ha sete sa dove andare a cercare l’acqua, mentre io non lo so; perché lui sa che c’è una pianta che lascia un filino appena sul terreno e quando vede quel filino lui comincia a scavare, tira fuori questa radice che è piena d’acqua, beve e se ne va, mentre io muoio di sete. Quella è cultura.

Jacopo: Tornando a parlare del libro dei proverbi, mi risulta che anche altri abbiano scritto libri sull’argomento.

Lapucci: Certamente, dopo di me altri si sono cimentati, ma spesso si sono limitati ad elencarli. I proverbi hanno bisogno di una spiegazione, altrimenti non serve a niente metterli in fila. Avete visto anche voi, è bastato un proverbio per mettervi in difficoltà, se non vi avessi dato la spiegazione saremmo probabilmente ancora fermi lì… Il problema è che ormai non abbiamo più lo spirito interpretativo, non abbiamo più cultura analogica, ormai viviamo con la cultura logica.

Jacopo: Ma quando quel proverbio veniva utilizzato, tutti ne conoscevano il significato?

Lapucci: Certo! Quando la mamma diceva “la madonna che non la volle lo prese vecchio”, la figliola capiva al volo dove stava andando a parare.

Enrico: Si potrebbe dire che il proverbio era un qualcosa che non ammetteva replica, una sentenza definitiva.

Lapucci: Il proverbio non ammette replica, conclude la discussione e al tempo stesso ti mette di fronte ad un fatto certo.

Jacopo: Qual è la genesi del proverbio, da dove nasceva?

Lapucci: Comunemente si ritiene che l’autore del Libro dei Proverbi nella Bibbia sia Salomone, per cui si regoli un po’ lei su quale possa essere l’origine. Le dico in tutta franchezza che se conoscessi l’origine dei proverbi, sarei probabilmente in viaggio per Stoccolma per ritirare il Premio Nobel. Il proverbio è un qualcosa insito in tutti i popoli, nasce spontaneo, talvolta dal nulla. A chiunque viene di dire “chi la fa l’aspetti”, un modo di dire comune che piace, fa presa, diventa noto e si trasmette.

Jacopo: Oggi, tramite internet, la diffusione è velocissima, è quel che si definisce virale, ma in tempi molto antichi la cosa era alquanto complicata, non esisteva la tradizione scritta, o almeno era molto meno diffusa rispetto a tempi più recenti.

Lapucci: La tradizione scritta ha origini antichissime, se ne hanno tracce già nel 3000 A.C.; i proverbi esistevano anche in tempi più remoti ma confluirono nei testi scritti molto tardi, c’è stata una tradizione orale che ha sempre tramandato di generazione in generazione questi detti.

Gabriella: Sia i proverbi che le leggende le sono pervenuti tramite racconti degli anziani, oppure ha fatto ricerche di archivio?

Lapucci: Prima di tutto, sono i racconti degli anziani che mi hanno instradato. Naturalmente ho poi integrato questi racconti con ricerche d’archivio ed ho controllato e riscontrato i dati raccolti su quella gran quantità di libri che costituiscono la mia biblioteca, ma la fonte principale resta il racconto orale.

Enrico: Il proverbio ha subito un’evoluzione nel tempo?

Lapucci: Oggi il proverbio ha cambiato faccia e io me ne sono reso conto quando, facendo il professore, passavo tra i banchi dei ragazzi e mi divertiva sfogliare i loro diari, specialmente quelli delle ragazze, che ci scrivevano e ci appiccicavano sopra di tutto. Erano pieni di frasi, di princìpi; i primi esempi di quello che adesso sta soppiantando il proverbio: gli aforismi. L’aforisma è micidiale, internet ne è pieno; Oscar Wilde è in assoluto il più gettonato, ma ce ne sono tantissimi altri. Volendo negli aforismi si può ritrovare anche un pensiero filosofico, perché non avendo più la filosofia forte, abbiamo il pensiero debole, di cui Nietsche è stato il primo promulgatore; tutto viene espresso per aforisma e gli aforismi vanno ad aggiungersi ai proverbi, fondendosi con essi, tanto che tra mille anni non avremo più distinzione tra proverbi ed aforismi. Posso dunque asserire che il proverbio come tale si trasforma e che le cose vitali sono individuabili proprio dalla loro capacità di trasformarsi.

Gabriella: Possiamo dunque dire che si adattano alla situazione e all’ambiente, diventano camaleontici?

Lapucci: Eh si, veramente. Dappertutto è così, insomma se cominciamo a parlare oppure leggiamo gli scritti dei giovani che mi sottopongono le loro opere, troviamo che ridondano di aforismi, quindi si può proprio affermare che il proverbio va in quella direzione.

Jacopo: È il mezzo più veloce per far intendere qualcosa.

Lapucci: Si, perché è icastico! E ti mette di fronte ad un fatto. Dobbiamo però tener presente che il pensiero antico era tutto di carattere metaforico, era un pensiero analogico. Vale a dire che quando uno ci pone la domanda “che cos’è il prossimo” noi prendiamo il vocabolario e andiamo a cercare la parola “prossimo”: “la persona che …” E in questo modo diamo una definizione, che è logica, ossia ne vengono esclusi tutti i concetti che sono estranei a questa etichetta, questa parola, questa fenomenologia.

L’uomo antico alla stessa domanda non risponde per definizione. L’antico avrebbe risposto come Gesù Cristo: “chi è il mio prossimo?” la risposta sarebbe stata “scendeva da Gerusalemme a Gerico un tale che incappò nei ladroni; questi lo derubarono, lo percossero e lo lasciarono agonizzante sotto la strada. Passò un sacerdote e tirò di lungo; passò un pastore e tirò di lungo; passò un samaritano e lo curò”.

Qui non viene data una definizione, ma viene narrato un fatto che ad un certo momento mette l’interlocutore nella condizione di capire che “il mio prossimo è anche il samaritano”, ma senza rivelarlo direttamente, perché se lo avesse fatto sarebbe stato assimilato ad una bestemmia. Questo è un esempio di ragionamento analogico e difatti tutti i grandi fondatori di religioni parlano per analogia, perché la definizione non ha lo stesso effetto trascinante…

Enrico: Descrive, ma non convince.

Lapucci: La definizione logica ti mette dei paletti tutto intorno, è molto più precisa, in virtù della logica. Un esempio: le macchine non si possono mandare con le parabole, si mandano con le formule perché sono logiche.

Jacopo: Lei ha scritto anche opere teatrali?

Lapucci: Sì. Ho scritto e ho pubblicato le mie opere in un libro di teatro, ho fatto del teatro….

Jacopo: Le sue opere sono state anche rappresentate.

Lapucci: Son state rappresentate a San Gimignano, ho fatto delle stagioni con Il Teatro de’ Leggeri e poi a Montepulciano ho fatto tre “Bruscelli”, che è teatro popolare di piazza, ed i miei testi sono stati usati in vari teatri, ed hanno riscosso successo, specialmente i testi popolari sono stati usati a dismisura.

Jacopo: Ha adattato delle novelle, delle storie, le ha reinterpretate o cosa?

Lapucci: No, io ho raccolto testi di quello che si chiama teatro popolare minimo, poi li ho fatti miei e sono stati utilizzati, li adoperano ancora; però è un mondo difficile perché praticamente la televisione ha ammazzato tutto il teatro.

Gabriella: C’è qualcosa che lei ha scritto e di cui si è pentito, che col senno di poi non riscriverebbe?

Lapucci: Non ho firmato neanche cambiali, sicchè, voglio dire… (risata generale) no, perché quando faccio un libro lo faccio sempre con spirito caritativo, dico “ma anche questo che deve essere buttato via?” e allora lo faccio. Non ho mai scritto un libro né per guadagnare né per vanità o roba del genere, ho sempre scritto un libro dopo essermi chiesto “a chi può servire questo qui?”.

Quando scrivo mi metto nei panni di colui che dovrà leggere, e la prima cosa che mi domando è “quello che legge, cosa capisce di questa cosa?” e solo dopo aver appurato di scrivere chiaramente, vado avanti.

Sinceramente i libri che ho scritto li ho fatti tutti con queste modalità, anche perché non ho fatto quelle che si chiaman “marchette”, non ho mai ceduto a quelli che dicono “mi fai questo libro così e cosà”.

L’unica volta che ho scritto una biografia su richiesta, prima di tutto volli sapere di questa persona, ed era il signor Bagnoli, fondatore della Sammontana e quando scoprii chi era, mi innamorai di questo personaggio molto particolare, direi quasi un genio, che ha tirato su dal nulla quella grande azienda che oggi è la Sammontana. Lui andava con la “gondola”, quel carretto per gelati con bicicletta, nel ’43 in giro per Empoli, a vendere gelati, partì proprio dal niente.

Jacopo: Ha avuto la capacità di passare da due ruote ad una organizzazione stabile.

Lapucci: era un uomo umilissimo, ma aveva un cervello che volava alto.

Gabriella: Credo che l’umiltà sia una grandissima forza.

Lapucci: Eh sì… ti permette di mantenere i piedi per terra anche quando ottieni dei successi; Bagnoli ha inventato il barattolino Sammontana: sembra una bischerata però lui ci ha ragionato, si è messo nella testa del consumatore: “ma la domenica la gente compra il gelato: io metto tre o quattro gusti dentro un barattolino, e gli propongo quello…” è stato un successo fulminante! È stato uno che ha avuto la capacità di prendere la squadra che giocava dietro la chiesa, l’Empoli… ed è ancora in serie A!

Jacopo: La domanda che le avrei rivolto adesso sarebbe stata “si è mai imbattuto in personaggi particolari?”, ma lei ha già risposto!

Enrico: Ho io una domanda, spostandosi di nuovo sulle tradizioni; secondo lei mettendo a confronto un fiorentino di sessant’anni fa ed uno di oggi, cos’è che è rimasto, cosa si è perso e cosa c’è di nuovo?

Lapucci: Mah, di nuovo c’è che non c’è più il fiorentino! Questa è una battuta di carattere paradossale perché in effetti è quello di cui si lamentava Dante, di questa commistione che è avvenuta nella città sua, si immagini oggi! La città, per un fatto sociale, è stata praticamente oggetto di un va e vieni di trasmigrazione. Io ho potuto rispondere in questa maniera perché so quello che dico: quando ho fatto il dizionario dei proverbi fiorentini io ho preso le mie misure e ora capite anche la difficoltà che c’è in questa cosa qui. Per dichiarare che un proverbio è fiorentino come fa lei? Per cominciare, bisogna che lo senta almeno tre o quattro volte dalle persone che stanno qui… poi, lei deve essere sicuro che quello con cui parla e che fa la funzione di informatore sia fiorentino verace; quindi che sia nato da fiorentini che sono fiorentini, da gente che è nata a Firenze.

Ora, per trovare questa gente qui, io ho sudato; fino a che uno viene anche da Prato, cinesi a parte, è un conto. Ma quando si immette in maniera massiccia gente da fuori, le cose non son più quelle. Io ho parlato con il prete di San Frediano: San Frediano aveva 11.000 abitanti, oggi ne sono rimasti 3.000. E tutte le case? Le hanno comprate le immobiliari per rivenderle a gente che viene saltuariamente a Firenze o le affitta a turisti.

Un’altra cosa: hanno fatto l’esame delle acque putride di Firenze, c’è più droga che in quelle di Londra, quindi in che città si vive? Una volta ero in commissione agli esami di maturità al liceo scientifico e, poiché in qualità di membro di commissione, si ha la possibilità di accedere ai documenti dei ragazzi, riscontrai che su 27 persone che erano lì, di veri fiorentini ce n’erano tre.

E allora qui che diavolo succede? Succede che quando si parla della fiorentinità si parla di una cosa su cui bisogna fare attenzione. C’è chi vuole conservarlo di più e chi lo vuole conservare di meno, questo spirito fiorentino. Per esempio, è venuto da me un ragazzo che mi ha portato da visionare un suo libro; lui fa il fisioterapista a Sesto e girando per le case ha trasposto su carta certe scenette cui ha assistito, di donne che si berciano da una stanza all’altra insultandosi, ed ha riprodotto fedelmente il linguaggio sestese. Io a Sesto Fiorentino ci ho insegnato e mi ero accorto di un particolare: i sestesi hanno conservato la loro lingua. I vecchi sestesi sono appassionati della loro lingua; in classe una volta sentii un ragazzo chiedere ad un altro: “come si dice s’eramo senza dir s’eramo?”; stavano facendo il compito di italiano, e se uno analizza bene questa frase ci racconta molto, perché il ragazzo era profondamente convinto che la parola fosse s’eramo: come si dice s’eramo (dando per scontato che s’eramo si dice), però c’è una locuzione, un’altra parola che bisogna usare qui per forza sennò il professore s’incavola.

Questo spirito fiorentino che io ho percepito in quella gente l’ho trascritto nel mio libro… lei ce l’ha “Fiorentino spirito bizzarro”? È il mio libro che si occupa di fiorentinità, e questa gente ci teneva molto alla fiorentinità e aveva anche un lato negativo che era quello di aver un po’ sullo stomaco gli altri, questo per forza.

Jacopo: Non si tratta solo di spirito campanilistico, a noi sta sulle scatole anche il turista che domanda un’informazione, sembra ci faccia un dispetto… e la stessa cosa l’ho notata nei livornesi.

Lapucci: I livornesi poi unn’esistono, son tutti fiorentini, figli di detenuti portati a Livorno.

Enrico: Non diciamoglielo, sennò si arrabbiano!

Lapucci: Prima c’era più amore verso la fiorentinità, ora c’è solo un po’ di superbia; io talvolta sono andato a parlare in ambienti dove mi sono accorto che tutto si incentra su un certo autocompiacimento verso questo Rinascimento che ci incombe addosso; se da un certo punto di vista è bello e stimolante, dall’altra parte è una cappa di piombo, perché a Firenze l’idea è questa: io son fiorentino, quindi non mi toccate: il senso artistico, l’intelligenza, la genialità e la scienza infusa sono parte del mio DNA… e invece dobbiamo scendere dal trono, tutto questo è una cosa che si conquista generazione per generazione e temo che la decadenza della città sia dovuta molto a questo, a tutta questa albagia che ci ha un po’ paralizzati.

Gabriella: Quindi lei ritiene che ormai noi si viva ancorati al passato?

Lapucci: Ciò che ha determinato veramente il tracollo è stata l’incapacità dei fiorentini di adeguarsi ai nuovi sistemi di produzione, perché praticamente la città si è svuotata, e si è svuotata soprattutto di quella che era la sua anima più importante: l’artigianato. E questi sono stati dei colpi terribili.

Jacopo: Lei ha ragione, ma non si e’ trattato di opera fiorentina, ma di opera nazionale: quando si pretende che un artigiano, per tenere a bottega un apprendista, debba pagare cifre enormi di contributi, assicurazioni e quant’altro… ricordo che mio nonno, odontotecnico, aveva ben 13 persone in laboratorio e c’era gente che addirittura era disposta a pagare per far stare il figlio a guardare, non a lavorare, per imparare il mestiere. Oggi non solo questo non accade, ma si e’ assistito ad una progressiva devastazione dell’artigiano.

Lapucci: Su questo fatto il cliente non ci poteva fare nulla perché si trattò di un fatto politico. La sinistra aveva due bestie nere: i contadini e gli artigiani, perché non erano sindacalizzabili, questo è il punto, e allora ha fatto l’unica cosa che poteva fare: ha distrutto i contadini, che forse erano già condannati, con l’industrializzazione la terra non si lavora più, ma gli artigiani sono stati distrutti perché non sono stati aiutati nel momento fondamentale dell’avvenimento. L’artigiano stava nella bottega e la gente era disposta a pagare; in realtà normalmente non pagava, però imparava, conosceva e prendeva addirittura il posto del padrone. Allora, quando ad un certo punto nel dopoguerra arrivarono le industrie, il ragazzo che decideva di andare in un’industria, guadagnava subito il massimo di quella che era la sua possibilità. Se andava dall’artigiano doveva cominciare piano piano, e in base a quello che rendeva. Ovviamente la rivoluzione industriale lo spostò verso l’industria; la politica non venne incontro a questo, perché avrebbe dovuto dare un sussidio o uno sgravio di tasse a chi decideva di intraprendere la strada dell’artigianato, ma questo non è accaduto perché l’artigiano non piaceva assolutamente.

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Sembra incredibile ma il tempo è volato e siamo costretti a fermarci, ciò che credevamo un’intervista è diventata una chiacchierata, o meglio, una lezione come dovrebbero essere le lezioni a scuola, parlare di un argomento, divagare, fornire informazioni, idee, approfondimenti ma soprattutto qualcosa che oggi non si insegna più: la passione e l’amore per un argomento. Il Professor Lapucci è un maestro in questo, come nelle materie che tratta e non possiamo che ringraziarlo per averci concesso la possibilità di questa intervista.

Usciamo da casa del Professore con la netta sensazione di essere migliori di quando siamo entrati, e con la coscienza di aver appreso qualcosa di veramente sostanziale: passato, presente e futuro formano un’amalgama inseparabile; occorre comprensione tra gli esseri umani, specie di generazioni diverse, occorre un dialogo che permetta ai giovani tramite l’analisi del passato di capire come affrontare il domani e che consenta ai meno giovani di aprirsi alle conoscenze attuali attingendo alle loro esperienze, cercando di preventivare il futuro.

Tutto questo si chiama civiltà e progresso.

Subito sotto, come appendice, l’elenco delle opere letterarie del Professor Carlo Lapucci.

Poesia

  • 6 opere di Ottone Rosai, 6 poesie di Carlo Lapucci, Firenze, Edizioni d’arte Galleria Forlai, 1980.
  • L’erba inutile, Firenze, Nuovedizioni E. Vallecchi, 1982.
  • Codici di poesia 2, San Miniato, Edizioni Orcio d’oro, 1985.
  • Il battello del sale, Montepulciano, Editori del Grifo, 1991.
  • Oibò. Parodie e copie, Marina di Carrara, Francesco Rossi editore, 2000.
  • Diario scolastico, Montepulciano, Editrice Le Balze , 2001.
  • Statue di fumo, Marina di Carrara, Francesco Rossi editore, 2002.
  • Alla dogana del sonno, Montepulciano, Editrice Le Balze, 2005.
  • Haiku, Con quindici dipinti di Anna Maria Antoni, Firenze, Polistampa, 2009.

Narrativa

  • Il tónfano, in: «L’Approdo letterario», 54 (giugno 1971), pp. 57-71.
  • Itinerario a Vega, Bologna, Cappelli, 1972.
  • La pianura e altri racconti, Firenze, Le Samare, 1974.
  • Luigi Guanella. Parabole di un samaritano, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1986.
  • L’uomo di vetro, Milano, Camunia, 1992.
  • Walks outside the wall, Montepulciano, Editrice Le Balze, 2005.
  • Silicon Valley, Marina di Carrara, Francesco Rossi editore, 2006.
  • Viaggio nell’Antimateria, Illustrazioni di Antonio Petti, Marina di Carrara, Francesco Rossi editore, 2006.
  • L’erba della paura, Firenze, M. Pagliai, 2011.
  • Eroi senza lapide. Le vite dei filosofi popolari, Firenze, Clichy, 2014.

Saggistica

  • Canzoniere dell’amore coniugale, Bologna, Cappelli, 1974.
  • Dal volgarizzamento alla traduzione, Firenze, Valmartina, 1983.
  • L’era del focolare, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991.
  • Come una fiaba diventa toscana, Montepulciano, Editori del Grifo, 1992.
  • Introduzione allo studio delle tradizioni popolari, Firenze, Polistampa, 2001.
  • Fiorentino spirito bizzarro. Lo spirito di una città nella sua creatività linguistica, Firenze, Nerbini, 2006.
  • La favola latina, a Roma, nel Medio Evo, nel Rinascimento, Bologna, Cappelli, 2007.
  • l tempo senza orologi, Firenze, Nerbini, 2008.
  • Il numero e la struttura universale, Firenze, Polistampa, 2010
  • Estetica e trascendenza, Siena, Cantagalli, 2011.
  • Il dizionario delle situazioni imbarazzati, Illustrazioni di Lido Contemori, Firenze, Leonardo edizioni, 2013.

Linguistica

  • Per modo di dire. Dizionario dei modi di dire della lingua italiana, Firenze, Valmartina, 1969; poi Milano, Vallardi, 1979, 1984, 1990; Garzanti – Vallardi, 1993.
  • I proverbi dei mesi, Bologna, Cappelli, 1975; poi Milano, Vallardi, 1985 (In collaborazione con Anna Maria Antoni).
  • Come disse… Dizionario delle facezie proverbiali della lingua italiana, Firenze, Valmartina, 1978.
  • Locuzioni della lingua italiana, in: Il nuovo Zingarelli. Vocabolario della lingua italiana, Undicesima edizione, Bologna, Zanichelli, 1983.
  • La parlata di Montepulciano e dintorni, Montepulciano, Editori del Grifo, 1988.
  • Come fece quello che… Fatti celebri di gente sconosciuta, Montepulciano, Editori del Grifo, 1990.
  • Proverbi e motti fiorentini, Firenze, SP 44 Ed., 1993.
  • Dizionario dei proverbi italiani, con saggio introduttivo sul proverbio e la sua storia, Firenze, F. Le Monnier, 2006 (pp. LIV,1.354); poi Milano, Mondadori, 2007 (pp. LXIII,1.854).

Antropologia culturale e tradizioni popolari

  • Indovinelli italiani, Firenze, Valmartina,1977.
  • La sfida tra S. Martino e il diavolo, Firenze,Le Samare, 1980.
  • Ninne nanne toscane, Firenze, SP 44 Editore, 1982.
  • Fiabe toscane, Milano, Oscar Mondadori, 1984.
  • La Bibbia dei poveri. Storia popolare del mondo, Milano, Oscar Mondadori, 1985.
  • Indovinelli italiani, Milano, Vallardi, 1986.
  • Il libro delle filastrocche, Milano, Vallardi, 1987.
  • Il libro delle veglie, Milano, Vallardi, 1988.
  • Folletti, fate e paure della tradizione popolare toscana, Montepulciano, Editori del Grifo, 1989.
  • Teatro popolare minimo, Montepulciano, Editori del Grifo,1989.
  • Poesia popolare del Natale, Montepulciano, Editori del Grifo, 1989.
  • L’antica rappresentazione della “Corona dei mesi”, Firenze, SP 44, 1990.
  • Almanacco toscano 1992, Firenze, Ponte alle Grazie, 1991.
  • Dizionario delle figure fantastiche, Milano, Vallardi, 1991.
  • Almanacco 1993. Feste, ricorrenze, detti, tradizioni della cultura popolare quotidiana, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992.
  • Cielo a pecorelle, Milano, Vallardi, 1992.
  • La vera cabala del lotto. Il significato dei numeri, Milano, Vallardi, 1993.
  • 30 dì conta novembre… I proverbi dei mesi, Milano, Vallardi, 1993 (In collaborazione con Anna Maria Antoni).
  • Erbolario familiare. Storia e magia delle erbe, Firenze, Ponte alle Grazie,1994 (In collaborazione con Anna Maria Antoni).
  • Il libro degli indovinelli italiani, Milano, Vallardi, 1994.
  • L’arca di Noè. Bestiario popolare, Milano, Vallardi, 1995.
  • Dizionario dei modi di vivere del passato. Come si poteva essere felici senza televisione e computer, Firenze, Ponte alle Grazie, 1996.
  • Fiabe toscane di maghi, fate, animali, diavoli e giganti, 2 voll., Firenze, Polistampa, 2008.
  • Il libro delle paure. Racconti popolari di diavoli, fate e fantasmi, Firenze, Sarnus, 2009.
  • Le profacole. Leggendario popolare delle figure sacre, Siena, Cantagalli, 2010.
  • Leggendario metropolitano. Storie comuni e fatti di d’ordinaria conversazione, Firenze, Barbes Ed., 2010.
  • Fiabe toscane. Le più belle storie, Nuova Edizione, Firenze, Polistampa, 2011.
  • Le leggende della terra toscana, Firenze, Polistampa, 2011.
  • Fiabe toscane di maghi, fate, animali, diavoli e giganti, 2 voll., Firenze, Polistampa, 2011.
  • La cucina degli antenati. Le stagioni degli alimenti e i piatti poveri della Toscana, Firenze, Polistampa, 2014.
  • Le barzellette italiane. Farsa umana e filosofia sommersa nelle storielle popolari, Firenze, Polistampa, 2014.
  • La vita a lieto fine. La lunga ironia del mondo popolare sul nostro trapasso, Firenze, Libreria editrice fiorentina, 2015.

Teatro

  • Melusina. Dramma in tre atti in forma di Bruscello, Montepulciano, Editori del Grifo, 1995 (Rappresentato a Montepulciano il 15 agosto 1995).
  • Marcolfo il brigante della luna. Dramma in tre atti in forma di Bruscello, Montepulciano, Editori del Grifo, 1996 (Rappresentato a Montepulciano il 15 agosto 1996).
  • Mustiola del Santo Anello. Dramma in tre atti in forma di Bruscello, Montepulciano, Editrice Le Balze, 2000 (Rappresentato a Montepulciano il 15 agosto 2000).
  • Recitar narrando, Spettacolo del Teatro di San Gimignano, Siena, 2 luglio 2002.
  • Silicon Valley, Spettacolo del Teatro di San Gimignano, Siena, 2 luglio 2003.
  • Teatro a buon mercato, Marina di Carrara, Francesco Rossi editore, 2004.

Varia

    • Zibaldone del p. Matteo Pinelli priore di Cerliano, a cura di Carlo Lapucci e Sergio Pacciani, Firenze, G. Pagnini, 1997.
    • I lunari di Enrico Giusti. Storia di un paese e di una fabbrica annotata nelle pagine del Sesto Caio Baccelli, a cura di Carlo Lapucci, Firenze, Polistampa, 2000.
    • Iacopo da Varagine, L’invenzione della Santa Croce, a cura di Carlo Lapucci, Montepulciano, Le Balze, 2000.
  • Nicola Lisi, Diario di un parroco di campagna, Prefazione di Carlo Lapucci, Siena, Cantagalli, 2009.
Intervista a Carlo Lapucci.

3 pensieri su “Intervista a Carlo Lapucci.

  • 22 Aprile 2020 alle 10:37
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    Ho avuto la fortuna di avere il Prof. Lapucci come insegnante all’Istituto Tecnico per il Turismo di Firenze un po’ di anni fa….le sue lezioni erano una scoperta continua e un arricchimento dell’anima. In quegli anni difficili mi/ci ha dato gli strumenti per pensare. Grazie Professore.

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  • 12 Gennaio 2019 alle 11:09
    Permalink

    Altro che squallore, una vita
    intensa a coltivare passioni, che sono le fortezze che tutti vorremmo costruire. Una bella e Interessante narrazione. Grazie a tutti. Mi è piaciuto molto leggere questa intervista.

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